cap. 2

18 1 0
                                    

Era abituato al dolore fisico, al rumore delle ossa che cigolavano per lo sforzo, al bruciore dei muscoli dopo ore di allenamento, al fastidio delle gocce di sudore nei suoi occhi attenti. Era talmente abituato da essere assuefatto alla sensazione di abbandono che provava dopo ogni allenamento. Non importava quanto dolessero braccia o gambe, quell'endorfina era una droga per lui e si infilava poco sotto la sua pelle. La sentiva scorrere nelle sue vene e restituire al suo corpo esausto la soddisfazione dopo così tanta fatica.
Non era abituato, però, al dolore interiore. Si sarebbe sentito meglio se fosse stato colpito da proiettili probabilmente. Perché voleva trovarsi lui in quel letto di ospedale al posto di sua madre. Il dolore lo soffocava, di notte gravava su di lui come un peso di un milione di tonnellate, pensieri che ustionavano, lacrime che non uscivano, rabbia che implodeva, speranza, odio, frustrazione, impotenza.
Si svegliò di colpo al tocco di suo padre.
"Vai", gli disse.
Senza aggiungere niente.
Ma d'altronde, a cosa sarebbe servito? Le parole non hanno mai salvato nessuno.
Will si alzò dal divano sul quale si era addormentato e non senza provare un triste sollievo uscì dall'ospedale con il puzzo nauseante di disinfettante e rassegnazione ancora sui vestiti.
Fu investito da una ventata d'aria mattutina, di smog e di gente che corre, di pendolari che bestemmiano e di venditori ambulanti di giornali che strillano. Nonostante un retrogusto amaro annebbiasse ancora i contorni della sua giornata, si sentiva vagamente meglio. Sapeva di poter aiutare di più sua madre fuori da quella stanza piuttosto che dentro. Perciò si avviò per le strade della sua amata Los Angeles con passo spedito ed arrivò al college prima  che la tristezza calasse sulla sua giornata.
Il sole batteva alto quel mattino e le due enormi torri dell'ingresso dell'università erano inondate di luce. Se non avesse avuto di meglio da pensare, avrebbe apprezzato il calore di quella giornata calda sulla sua pelle e avrebbe goduto di quei colori, invece si diresse in modo indifferente verso la classe di economia.
Sedette nell'auditorium e si fece sommergere dalla lezione del giorno.
Era bravo, ma non era uno dei migliori. Stava nel mazzo e partecipava, ma avrebbe potuto dare di più.
"Con la tua intelligenza potresti stracciare tutti quanti", diceva sempre sua madre.
Lui era affascinato dall'economia perché in qualche modo gli mostrava degli spaccati dell'umanità che lo circondava. Il modo in cui i soldi si muovevano lo aveva sempre intrigato. Non tanto per qualche moto di avidità o bramosia... semplicemente perché gli mostrava il modo viscerale ed incomprensibile in cui gli uomini sperperavano i loro denari. Tuttavia, il suo cuore era per la pallacanestro, e se avesse dovuto decidere quale delle due scegliere, di certo non avrebbe puntato il suo dito verso l'economia.
Quel giorno però si sentiva diverso. Un nuovo conforto si fece spazio nel suo cuore abbattuto: impegnandosi di più avrebbe forse potuto regalare un sorriso in più a sua madre. Il che era fondamentale. Decise, in quella mattina allagata di sole, che non avrebbe tolto tempo al basket, ma ne avrebbe dedicato di più allo studio. Si sarebbe consumato fino alle ossa per riuscire bene in entrambi e per dimostrare a quello stronzo del destino che lui, in ogni caso, era un vincitore.

Il pranzo arrivò in fretta, e lui si accomodò ad un tavolo vuoto nella cantina della scuola. Mangiò voracemente dal suo vassoio senza preoccuparsi di niente e nessuno. Mente vuota, essenza spremuta, forze consumate fino alle gocce dell'esasperazione.
Finché non arrivò quella chiamata.
Quel trillo del telefono, la vibrazione del suo smartphone nella tasca dei suoi pantaloni che si era lavato da solo, un po' spiegazzati perché non era capace di stirare.
Un suono inaspettato e foriero di notizie, ne era sicuro: nessuno lo cercava mai a quell'ora.
Fu angosciato per un istante: erano cattive notizie?

Tremando, rispose al telefono.

Venti minuti dopo stava già correndo verso casa, indifferente nei confronti degli spintoni che tirava ai turisti rincoglioniti che rallentavano la sua marcia verso l'appartamento. Con il fiatone si cambiò, inforcò la bici di suo fratello e cominciò a pedalare in quarta per essere più veloce. Le macchine gli sfrecciavano accanto. Si maledisse per non aver ancora preso la patente. D'altronde non ne aveva avuto il tempo. Il gas dello scarico delle macchine gli penetrò nei polmoni e non poté fare a meno di tossire un paio di volte. Non fumava per avere più fiato, non si drogava nemmeno occasionalmente per mantenere perfetti i suoi riflessi e mangiava sano. Perciò le polveri sottili lo facevano impazzire.

Giunse alla sua meta soltanto due minuti in ritardo, sudato e con il viso teso. Le mani strette in due pugni, la mascella serrata e il cervello in subbuglio.
Ritt e Max erano già in palestra, seduti sugli spalti.
"Vedo che ti sei già riscaldato", disse il primo, e la tensione di Will si attenuò di un respiro.
Quella telefonata avrebbe potuto cambiargli la vita.
Quella era un'occasione che non avrebbe perso per nulla al mondo.
Forse quello stesso destino che da un mese lo seviziava con la malattia di sua mamma gli stava offrendo il modo di riscattarsi. Di farsi valere. Di cambiare le carte in tavola.
Ritt voleva vederlo giocare ancora una volta. Lo aveva notato il pomeriggio prima ad allenamento e aveva qualcosa in mente per lui. Forse Ritt gli avrebbe donato delle ali per spiccare il volo. Una volta per tutte.

Tiri in sospensione, postura, posizione fondamentale, accuratezza nel tiro, correttezza del polso della mano che sostiene la palla in fase di tiro, passaggi, palleggi,  terzo tempo, gancio... Ritt chiese di vedere tutto. Lo esaminò dalla testa ai piedi, dalla casacca alle mutande. Dopo quattro estenuanti ore, durante le quali non gli aveva tolto il suo sguardo inquisitore di dosso per un solo istante, il raffinato newyorkese lo ringraziò e senza scomporsi un attimo si dileguò.
"Sai una cosa, Will? Non te l'ho mai detto. E non l'ho mai detto a nessuno. Sinceramente, spero di non pentirmi mai di quello che sto per dirti. Sei il migliore giocatore che io abbia mai avuto. Comunque vada questa storia, è stato un orgoglio per me vederti crescere in questa squadra."
Will gli tirò una pacca sulla spalla.
"Non rammollirti. Sei il migliore allenatore che io abbia mai conosciuto, Max, ma ora non gasarti troppo. Piuttosto, puoi dirmi che diavolo aveva in mente questo tizio?"
Max rise mentre sistemava la palestra per l'allenamento dei più piccoli, che sarebbe cominciato di lì a poco.
"Sta cercando nuovi talenti per i drafts dell'NBA di quest'anno... E tu sei una delle migliori promesse. Penso voglia chiederti di dichiararti eleggibile."
Will era sconvolto.
Aveva immaginato tante cose, ma le sue illusioni non erano mai volate così in alto. Per la prima volta, la realtà superava l'immaginazione.
"Mi prendi per il culo?", chiese incredulo.
"Neanche per sogno. Cazzo, sapessi quanto ti invidio. Will, vattene a casa ora. Ti sei allenato abbastanza per oggi"
Lui non aveva intenzione di tornare al suo vuoto appartamento.
"No, posso farlo lo stesso. Non sono stanco"
Max lo squadrò, e lasciò trasparire una cosa che mandava Will su tutte le furie: la compassione.
"Tuo padre mi ha detto... mi dispiace Will. Torna a casa, vai da lei."

Ma che cazzo, pensò Will mentre sbatteva la porta della palestra. Perché gliel'aveva detto? Nessuno doveva sapere, non avrebbe dato la soddisfazione alla sorte di vederlo compatito da altre persone. Lasciò che il rumore della città placasse la sua rabbia mentre tornava a casa in bici.
Dopo poco riuscì a mettere da parte l'indignazione per realizzare gli eventi di quel pomeriggio.
Drafts NBA.
Era stato notato.
Era come se qualcuno gli si fosse presentato davanti a casa con due ali per volare e gliele avesse regalate senza chiedere nulla in cambio.
NBA. Drafts.
Consistevano in una serie di estrazioni che permettevano alle squadre più in basso della classifica di scegliere dei nuovi talenti emergenti per risollevarsi. Le giovani promesse dovevano dichiararsi disponibili ad essere selezionate (e chi mai avrebbe rifiutato un'occasione simile? Uno stupido forse) e dopo essere state scelte dalle squadre erano tenute a partecipare ad una sorta di Camp estivo dove li avrebbero sottoposti ad ogni genere di test fisico e non.
Non riusciva a crederci.
Nella sua mente si stampò l'immagine di Kobe. Il suo idolo, il più grande giocatore di basket dopo Michael Jordan, un esempio di disciplina, autoabnegazione per il raggiungimento di un obbiettivo, un esempio di tecnica ma soprattutto di vita da seguire ed emulare.
Anche Kobe Bryant aveva partecipato ai Drafts del 1996 quando ancora era un sedicenne e senza passare per il college. Era stato scelto dagli Charlotte Hornes e poi scambiato per un altro giocatore con i Lakers, la squadra preferita di Kobe ed anche quella di Will. Come poteva sentirsi indignato con suo padre se in quel momento stava ricevendo una possibilità così grande?
Gli venne da piangere, ma non pianse.

La sera stessa si presentò all'ospedale, dove c'erano mamma, papà e James. Diede loro la bella notizia, a suo padre brillarono gli occhi.
Suo fratello corse per tutti i corridoi dell'ospedale annunciando a tutti, medici, infermiere e pazienti la notizia, che interessasse o no.
Sua madre non ebbe la forza di abbracciarlo, ma dopo un mese la vide sorridere.
E piangere di gioia.
E quel sorriso, quelle lacrime, quell'amore, quell'orgoglio... valsero più di ogni altra cosa.

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 14, 2017 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

Il canestroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora