stiamo fermi

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A che ora sono andato a letto? Le 5, Le 6? Troppo tardi, e troppa vodka, ne sento ancora il sapore in gola, troppo fumo anche: ho la bocca impastata. Con Gip si esagera sempre, è convinto che per divertirsi bisogna strafare, e sa essere molto persuasivo. È il giorno dopo che rimpiangi gli eccessi.

E ora è tardi, stamattina devo consegnare l'ultimo capitolo al prof, e poi è il compleanno di Katia, non ho nemmeno un regalo. Devo alzarmi, tra un po' mia madre comincerà a tempestare la mia porta: «Alzati, forza, va a finire che arrivi ancora in ritardo».

Mia madre! Dovrebbe già essere qui, strano, perché non l'ho ancora sentita? Il silenzio è totale, dov'è mia madre? Che silenzio. Troppo silenzio.

Adesso sono sveglio davvero, il silenzio ha dissipato gli ultimi sprazzi di sogno: mia madre non c'è più, né Gip, né Katia. Non c'è più nessuno, più nessuno di quelli che conoscevo. Sopravvivono testardi solo nei miei sogni. A volte vorrei non svegliarmi mai. Nei sogni ho ancora degli amici, una famiglia, delle passioni, degli obiettivi. Da sveglio non ho più nulla, il mio solo obiettivo è sopravvivere. Da sveglio ricordo, da sveglio penso. Da sveglio ascolto il silenzio. Lo odio questo silenzio, anche se so che vuol dire che sono al sicuro, per ora. Al sicuro, ma solo.

Ricordo ancora il giorno in cui tutto è cominciato. Scendendo dal treno mi sono detto che c'era poca gente in stazione, per essere venerdì sera. Meglio così, ho pensato.

Ho recuperato la bici legata con doppia catena a un lampione, il mio preferito. La città sembrava stranamente vuota, come un pomeriggio d'agosto; ma eravamo in ottobre. «Devo chiedere a mamma se è una ricorrenza speciale e me la sono persa: sono tutti partiti in ferie? Un ponte che mi è sfuggito?». Ma arrivato a casa non ho mai avuto l'occasione di formulare la domanda. Risalendo dal garage l'ho vista di spalle: assorta, fissava qualcosa in strada, nascosta dietro la spessa tenda della finestra. «Mamma, che fai, la ficcanaso? Che guardi così di soppiatto? - la sfottevo - la vicina organizza un'orgia con postino e idraulico?». Ma arrivato al suo fianco ho smesso di ridere. Non ho mai più ricominciato.

Di fronte a noi Gladis, la nostra dirimpettaia da sempre, la farmacista del quartiere, era accovacciata, le chiappe posate sui talloni, in mezzo alla strada, e stava letteralmente sbranando quello che restava di sua figlia Milly; mia compagna di banco dalla prima alla terza elementare. La stava letteralmente sbranando, come si vedono fare i leoni con le gazzelle, nei documentari alla tv. Solo che lì il leone era Gladis et la gazzella la sua adorata figlia unica. Intorno a loro altri corpi di vicini, ed altri vicini intenti a divorarli. Non capivo. Ho chiesto spiegazioni a mia madre, ma nei suoi occhi sbarrati c'era il mio stesso orrore, lo stesso stupore sconvolto. L'ho presa per le spalle, l'ho distolta dalla finestra. Siamo andati in cucina, è sempre lì che si finisce quando si cerca riconforto.

Abbiamo acceso la tv: la scena apocalittica che si era appena svolta davanti ai nostri occhi, nella strada in cui vivevamo da sempre, si ripeteva identica in altre strade, in altre città, in altri paesi: gente che divorava altra gente. Un giornalista, agitato, spiegava che le autorità incitavano la popolazione a rinchiudersi in casa; a barricare porte e finestre.

Secondo voci ufficiose e non confermate il paziente zero era un passeggero del treno Milano-Napoli delle 20 della sera prima. I sopravvissuti dicevano l'aver visto assopirsi quando il treno aveva da poco lasciato Roma Termini. Sembrava sofferente, sudava leggermente, si agitava nel sonno, tremava. Poi si era calmato.

Quando aveva riaperto gli occhi, gli ultimi passeggeri stavano scendendo dal treno, a Napoli. L'uomo era trasformato, lo sguardo allucinato, il colorito pallidissimo, quasi grigio, cercava di azzannare chiunque arrivasse alla sua portata. Un'ondata di panico pervase immediatamente la stazione. Soprattutto quando fu chiaro che chiunque riuscisse a sopravvivere alle ferite, si trasformava a sua volta in mostro affamato di carne umana. Il panico e il folle contagio si impadronirono della città, e presto ne superarono i confini. 23 ore più tardi aveva già varcato i confini nazionali.

Un virus, una pandemia a contagio irreversibile, forse un attacco chimico sconosciuto, sferrato da chissà quale nemico. O allora un virus nuovo, chissà, un modo per la natura di liberarsi dell'ospite umano. Questa specie animale diventata troppo ingombrante e nociva per il pianeta stesso. Non c'erano risposte per ora. La sola cosa certa era che il contagio avanzava ad una velocità impressionante, e l'unico consiglio era quello di barricarsi in casa.

Guardavamo ancora le immagini quando sentimmo la porta del salotto aprirsi di scatto: erano mesi che chiudeva male, dovevamo farla riparare, ma rimandavamo sempre, il numero di telefono del fabbro era appiccicato alla porta del frigo da un'eternità, inutilmente. E ora qualcuno era entrato in casa.

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