Innanzitutto pensai a bloccare la porta dall'interno: stava già diventando un riflesso. In garage scatoloni e cianfrusaglie ingombranti non mancavano, ne accatastammo un po' davanti alla porta. Mentre mi impadronivo di cacciaviti, martelli, tutto ciò che somigliasse ad un'arma di difesa (e di offesa, cazzo!), mamma riempiva il baule di scatolette di tonno, fagioli, mais, carne in scatola che nessuno ricordava di aver mai comprato: abbiamo sempre odiato il manzo in gelatina! I rumori al piano di sopra si intensificavano e non promettevano nulla di buono; feci segno a mamma di spicciarsi, ma era occupata a recuperare il contenuto dell'asciugabiancheria: un po' di vestiti potevano farci comodo. La guardai ammirato: una avventuriera, mia madre era un'avventuriera.
Eravamo già in macchina, la chiave sul contatto, quando, infine, inaspettatamente, udimmo il trillo del mio telefono. Un messaggio whatsapp di Katia: «Amore sto arrivando, aspettami». Le risposi immediatamente di venire diretta in garage passando dal retro, e aspettammo.
Quanto tempo restammo chiusi in macchina, dentro il garage, cercando di non sussultare a ogni mobile rovesciato sopra le nostre teste, ad ogni urlo proveniente dall'esterno? Non so, avevo gli occhi fissi sul telefono, facendo scorrere le foto di Katia. Non potevo pensare a nulla, se non che volevo vederla arrivare. «Che fai, Katy, spicciati, non c'è più tempo.», ma il telefono restava muto e impassibile. Sentivo che mamma si innervosiva ogni momento un po' di più, il tempo ci era contato e lo sapevamo tutti e due, ma nessuno ne parlava. Aspettavamo e basta.
Sbattevano con furore contro la porta alle nostre spalle. Ci sforzavamo di ignorarli, ma era sempre più arduo. Ci voltammo in tempo per vedere la barriera di scatoloni e bauli cominciare a cedere; la porta non avrebbe tardato ad aprirsi.
Scrissi a Katia che dovevamo partire ma che le saremmo andati incontro, sulla strada di casa sua, e feci cenno a mamma che ero pronto.
Non appena il portone cominciò a sollevarsi, li vedemmo. Ne riconobbi due. Pietro, lo conoscevo da sempre, eravamo cresciuti assieme, avevamo imparato assieme ad andare in bici senza le rotelle, anche la prima sbronza l'avevamo presa assieme, e insieme l'avevamo vomitata. Era lì, era lui, ma quello sguardo vacuo e colmo di selvaggia bramosia insieme, no, quello non glielo avevo mai visto. Suo padre era con lui, lo stesso furore avido negli occhi. Avevano delle piaghe aperte, l'uno sulla spalla, l'altro nell'avambraccio. «Dei morsi, Cristo! Dei morsi!», ho pensato, ma scacciai immediatamente il pensiero. Gli altri non li avevo mai visti, ma avevano tutti lo stesso sguardo. Volti e abiti erano macchiati di sangue e di altre sostanze organiche che mi rifiutavo di analizzare.
«Vai, mamma, vai». Accese il motore e partì decisa.
Il SUV, se penso quante gliene avevo dette quando se l'era comprato «Mamma, ma dai, il SUV. Ma se non esci mai dai confini della Pianura Padana, lunghi rettilinei, lande piatte come tavole; che te ne fai?». Adesso ero davvero grato di trovarmi in quell'auto e non nella vecchia panda.
Il botto non fu nemmeno troppo forte, caddero come birilli di carne, uno finì sotto le ruote, mamma non esitò e tirò dritto. Fu come quando si investe un ratto o un grosso riccio, ma infinitamente più grosso. La macchina sobbalzò un po', poi continuò la sua strada.
Mamma guidava come un pilota di rally, curve ad angolo retto, sgommate: un film.
Ma fu più un cortometraggio. A un paio di isolati da casa di Katia le quattro gomme esplosero, la macchina partì in testa-coda e si fermo schiantandosi di muso contro un platano.
Liberatici degli airbag uscimmo dall'auto. Chiodi e cocci di bottiglia ovunque: non era un incidente, era una trappola. Fissavamo ancora la macchina quando orrendi tizi coperti di sangue cominciarono ad uscire dalle case intorno. Non avevamo scelta, dovevamo correre. Presi mamma per mano e filammo.
Anni di atletica aiutano, trovai presto il fiato ed un ritmo veloce ma sostenibile, ero allenato a correre. Mamma no. Ci provava, ma era al di sopra delle sue forze. Rallentai leggermente, ma non bastava. Inciampò, non so in che cosa, forse nella sua stessa fatica. Cercai di farla rialzare subito, tenevo ancora la sua mano nella mia, ma era stremata. Arrivavano, non so quanti fossero, erano già su di noi.
«Mamma, ti prego alzati», la tiravo. Con uno strattone si liberò: «Sei la mia vita, corri amore mio, corri!». Mi sorrise e, con uno sforzo di cui non la credevo più capace, si rimise in piedi e si gettò letteralmente nelle braccia della orda che ci inseguiva. Si gettarono su di lei come un branco di cani randagi su una malcapitata preda.
Corsi senza voltarmi, senza guardare quelle orrende creature cibarsi di mia madre; erano così intenti a litigarsela che per qualche istante si distrassero da me lasciandomi il tempo di scappare. Mi salvai perché erano troppo occupati a sbranare mia madre, bella cazzo di fuga eroica!
Corsi senza voltarmi. Senza pensare. Corsi e basta.