ivan

12 0 0
                                    

Afferrai un coltellaccio. Con il fiato corto e le ginocchia un po' molli, varcai la soglia del salotto e lo vidi: Ivan, il ragazzino che abitava nella villetta accanto alla nostra. Quello che passava la serata da noi, a volte, quando i suoi volevano uscire da soli. Era in divisa da calciatore, senza le scarpe, le ginocchia sbucciate, un gomito sanguinava leggermente. Lo mandai in cucina e cercai alla bell'e meglio di barricare la porta di ingresso: era andata bene una volta, meglio non tentare il diavolo con quella serratura difettosa. Dopo aver dato un doppio giro di chiave, spinsi la credenza contro la porta, sperando bastasse.

Quando tornai in cucina, Ivan stava mangiando un panino con la nutella e mia madre gli accarezzava i capelli. Un bambino di cui occuparsi ed era tornata in sé. Poteva crollare il mondo attorno ma se qualcuno aveva bisogno di lei, mamma era là.

Rientrando dall'allenamento, ci raccontò con la bocca piena, aveva trovato la casa vuota ed era salito in camera dei suoi per chiamarli sul cellulare, ma, visto che nessuno dei due rispondeva, aveva deciso di scendere per saccheggiare un po' il frigo. A metà scala, un frastuono strano, dabbasso, lo aveva bloccato. Acquattatosi, aveva visto strani individui aggirarsi al piano terra. «Giravano per casa, aprivano le porte, rovesciavano i mobili, non li ho visti in faccia, non so cosa cercavano, ma i loro vestiti erano macchiati di sangue, e ansimavano, non parlavano, ma, non so, facevano un suono, come un ringhio, un rantolo animale. Cacchio, me la facevo sotto, dovevo andarmene!», ci disse tirando su col naso; si sfregò rapidamente gli occhi col braccio prima di terminare il suo racconto. Risalito silenziosamente in camera sua, dal balcone era sceso in giardino passando per il vecchio tiglio. Scavalcando la rete divisoria, era corso a rifugiarsi da noi. «Bisogna chiamare la polizia, i carabinieri, no? Per forza».

Era impaurito ed eccitato nello stesso tempo, sembrava esausto, e forse un po' febbricitante. Mamma lo fece sdraiare sul divano. Avvoltolandosi nel plaid mi rivolse un sorriso speranzoso: «Dormo un po' perché sono davvero stanco, ma poi ci facciamo un Mario Kart, aspettando che i miei vengano a cercarmi, eh? Sono diventato fortissimo, vedrai!».

Lo guardammo addormentarsi, ma non potei impedirmi di interpellare mia madre : «Hai sentito cosa dicevano alla tele del paziente zero? Agitato, sudava e tremava nel sonno. Guardalo, mamma!»; ma lei mi rassicurò, era solo un bambino impaurito e stanco: la febbre era una reazione normale.

Mi sforzai di calmarmi un po' tornando in cucina per farmi un panino e guardare il resto delle informazioni. Per provare ancora a telefonare a Katia, soprattutto, ma le linee dovevano essere tutte intasate. «Cazzo, Katy, dimmi che stai bene, ti prego!».

Mangiare è sempre stato il mio antistress naturale: tagliai qualche fetta di salame e un po' di pane, cercando di ottenere qualche notizia incoraggiante, ma non era un'impresa facile. Spiegavano che l'esercito e le forze dell'ordine, nonostante le perdite subite a causa del contagio e di qualche attacco svoltosi prima dell'allarme generale, erano sul piede di guerra, e presto avrebbero reso note le direttive nazionali. Volevo parlarne a mia madre per cercare di rincuorarla, più di quanto non fossi rincuorato io; ma si era addormentata anche lei. Me ne tornai al mio spuntino, ostinandomi ad inviare decine di vani messaggi whatsapp a Katia.

Fu il rumore ad attirare la mia attenzione, come un rantolo, un respiro affannato, un sibilo. Arrivato in salotto vidi Ivan in piedi, di spalle, si dirigeva verso mia madre ancora appisolata. Lo chiamai: «Iv, lasciala dormire, le fa bene». Si voltò a guardarmi, non dimenticherò mai quello sguardo; anche dopo tutto ciò che ho visto e vissuto da allora, quello sguardo, nella faccetta ancora sporca di nutella di Ivan, mi gela il sangue, come se lo avessi ancora davanti. Si stava già avventando su mia madre, dovevo fermarlo subito. Afferrai quello che avevo a portata di mano, il posacenere di cristallo, l'inutile regalo di matrimonio di zia Ida; mirai alla nuca, scagliai. Si accasciò di netto, mi ci gettai addosso. Un grosso bozzo si gonfiava già all'attaccatura dei capelli, e un leggero rivolo di sangue stillava da una piccola ferita. Era ammosciato bene, e privo di sensi.

Mia madre si svegliò: «Che succede, ma che fai?». Senza risponderle presi in braccio la creatura, non era più Ivan, non potevo pensare a lui come a un bambino, un bambino che avevo visto crescere; lo rinchiusi nello sgabuzzino e ne barricai la porta dall'esterno. Non sapevo quanto sarebbe rimasto svenuto, non sapevo cosa ne avrei fatto dopo, ma dovevo proteggerci da lui. E non potevo immaginare di fargli ancora del male. Non potevo.

Mentre cercavo di far capire a mia madre che non avevo avuto scelta, un rumore di vetri rotti e un primo tonfo, seguito da altri, ci informò che stavano entrando in cucina. Presi mia madre per mano e corremmo in garage.

Storie HorrorDove le storie prendono vita. Scoprilo ora