Ania Arancio

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La bambina venuta da lontano

Storia di Ania Arancio
Ho letto da qualche parte che il vero motivo per cui si sono estinti i dinosauri è perché nessuno li accarezzava. Bisogna sperare che l'uomo non faccia lo stesso stupido errore con le donne.
Fabio Volo

Sogni ... Ma quanti ne aveva fatti fin da piccola, perduta in quel villaggio di contadini della Bulgaria meridionale, nella speranzosa attesa che almeno uno si realizzasse.
Ma non era andata così.
Adesso poi tutto era irrimediabilmente infranto ed anche dormire era diventato un lusso per lei.
Iveska, sua madre, la donna che l'aveva portata in grembo e che l'aveva amata, pur non essendo stata frutto dell'amore, era dentro una bara di legno grezza, fredda come il suo stesso corpo senza vita.
Prima di morire le aveva urlato di andarsene ma suo padre - colui che aveva stuprato ripetutamente quella fragile donna che adesso giaceva senza vita -quando si fu accorto che meditava di fuggire, l'aveva prima picchiata, fino a farle perdere i sensi, poi l'aveva rinchiusa in uno stanzino.
Così potè vedere da dietro una grata, per l'ultima volta, le amabili spoglie della madre che i becchini avevano messo alla meglio dentro una tarlata e sporca cassa di abate. Senza un bacio, senza una preghiera ma accompagnate dalla voce rauca del padre che urlò, con voce impastata dall'alcool: <<Non valevi niente da viva ma da morta almeno mi frutterai qualcosa.>>
L'uomo, infatti, aveva venduto il corpo di sua madre, per pochi soldi, all'Accademia scientifica.
La piccola tremò al pensiero della salma della madre ridotta ad oggetto, smembrata e fatta in piccoli pezzi per insegnare a saccenti studenti di medicina il funzionamento del corpo umano.
"Che serva a qualcosa!" Sussurrò in cuor suo ben conscia del fatto che quegli studenti, una volta laureati, avrebbero usato le loro conoscenze per curare i ricchi e non gente come loro.
Nessuno venne a liberarla da quella prigione, né un immaginifico salvatore né quel bastardo di suo padre, ma lei approfittò di quell'intimità per dare sfogo al suo dolore così crudelmente soffocato dal succedersi sincopato degli ultimi avvenimenti di quei giorni.
Dormiva quando l'uomo venne ad aprire la porta dello stanzino.
<<Dai esci!>> Le ordinò con dolcezza, e per un attimo la giovane sperò che fosse stata ascoltata una delle sue tante preghiere e che il padre fosse cambiato, almeno di un filo.
Sul tavolo c'era un piatto con un quarto di pollo fumante.
<<Mangia, piccola, che poi ce la spasseremo un po'.>>
Ania non badò al contenuto esplicitamente sconcio di quella frase, non aveva ancora la malizia sufficiente, ma si preoccupò, piuttosto, di placare la fame.
Suo padre si era seduto accanto a lei e malgrado il puzzo di alcool e la barba ispida e incolta, pareva quieto e amorevole.
Gli occhi piccoli erano iniettati di sangue, ma lei non se ne curò. Troppa la fame di cibo e di affetto che agitava il suo animo ferito.
Troppa la speranza di una vita diversa!
Così non badò alla sua mano che le poggiò delicatamente sul ginocchio e che, salendo verso il pube, sollevava la sua gonna logora.
Perché lui le stava sussurrando parole dolci e lei, mai come adesso, sentiva l'urgenza di affetto e accoglienza.
Ad un certo punto le parve che la volesse cullare per farle dimenticare quegli ultimi tristi giorni. Ma stava cercando soltanto il modo migliore per rovesciarla a terra senza subire le sue proteste e senza fare eccessivi sforzi.
Accadde, senza che quasi se ne rendesse conto, che si trovò sul pavimento con l'uomo intento ad armeggiare famelico i suoi slip, goffo e ansante, almeno finché non glieli strappò di dosso.
A quel punto iniziò a scalciare e a piangere, cercando di togliersi da sopra quell'uomo lercio che tentava di montarla. Quando lui le mise un braccio sul collo e pressò sulla sua trachea, comprese con riluttanza che la sua priorità era quella di sopravvivere.
La sua mente allora cercò di allontanarsi da quel corpo profanato così non avvertì il dolore che gli stava causando, giù nel basso ventre e su dentro al suo cuore, mentre si agitava frenetico su di lei: sua figlia.
Aveva appena tredici anni quando perse la sua verginità e con il sangue scivolò via dal suo corpo ogni residua fantasia. Ogni fanciullesca illusione.
Da quel giorno non avrebbe più sognato per lungo, lungo tempo.
La mattina dopo si svegliò imbrattata di sangue e di sperma e indolenzita.
Il suo primo pensiero fu quello di correre di sopra a lavarsi quella sozzura di dosso.
Pianse sotto la doccia fredda, non di dolore, ma di rabbia. Aveva voglia di ammazzarlo, di vendicarsi per quello che aveva fatto. Ma non sapeva bene come potesse farlo. Come potesse fuggire da quest'altro inferno.
Poi focalizzò le parole di un suo amico, Stanislaw.
<<Perché non vieni con me, in Italia,>> le aveva detto. <<Ti farò diventare ricca. Lì non esiste la povertà ed hanno bisogno di gente da fuori perché le loro donne non figliano più. Poi tu sei bella e giovane, chissà che non rimedi un bel marito, magari un banchiere o, chissà, un attore, tipo Raul Bova.>>
La molla le scattò dentro. "Perché no" si disse.
Ma passarono altri dieci giorni di abusi prima che riuscisse a trovare l'occasione per fuggire.
Un giorno, dopo aver profanato di nuovo il corpo della sua unica figlia, troppo ubriaco per accorgersene, suo padre lasciò la porta dello sgabuzzino aperta prima di soccombere ad un sonno pesante. Così Ania uscì di soppiatto e, presa una vecchia valigia di cartone, ci ficcò dentro pochi e logori vestiti, la foto di sua madre e il suo rosario, e scappò prima che potesse svegliarsi e prima che lei stessa potesse pentirsene.
...
C'era una puzza rivoltante dentro il camion frigorifero. Troppe persone stipate dentro e neanche una presa d'aria che depurasse quel lezzo.
L'insegna recitava: "Von Haussen frutta biologica", ed era l'unica verità in tutto quell'inganno. Anche le persone stipate li dentro, infatti, avrebbero conosciuto spregevoli mercati dove gli esseri umani sono un bene di consumo; proprio come le casse di cavoli che mascheravano il doppio fondo e giustificavano, agli occhi di eventuali doganieri, il tanfo.
Qualcuno soffriva visibilmente per il protrarsi di quel viaggio infernale. Maruska era una delle più doloranti.
Ania l'avevo conosciuta al campo di raccolta, in qualche posto imprecisato tra gli altipiani della Crimea, assieme ad alcuni Cosacchi, parecchi Pakistani e curdi e qualche Cinese.
Veniva da Tiblisi in Georgia, ed era l'unica di quelle parti. Con lei aveva stretto un forte vincolo di solidarietà e mutua assistenza che, proprio perché frutto delle avversità, era diventato molto intenso.
Era stata la più spensierata e la più allegra del campo. In quei tre giorni di attesa si era fatta conoscere e voler bene da tutti ed aveva la capacità, solo con la sua presenza, di allietare gli animi. Ma adesso era diventata l'ombra di se stessa. Probabilmente era già ammalata quando si erano messi in viaggio. Un anziano che era stato infermiere in un ospedale irakeno prima di Saddam e della sua pulizia etnica, sospettava si trattasse di salmonella.
Ania cercava di prendersi cura di lei come meglio poteva, ma le condizioni del viaggio e l'assenza di antibiotici non garantivano di certo le condizioni terapeutiche migliori: doveva far fermare il camion, chiedere che la portassero in un Ospedale o che le somministrassero delle medicine, altrimenti sarebbe morta.
<<Non si fermeranno!>> Sospirò l'anziano infermiere in un inglese semplice che lei capiva. <<Ci trasportano illegalmente, piccola. Non dirmi che non lo sapevi.>>
<<Devono farlo o la perderemo. Non pensi che la sua vita valga qualcosa anche per loro?>>
Il Curdo sorrise con affetto. Perché dire ad una ragazzina che la gente che li stava trasportando li considerava nient'altro che merce, che ognuno di loro aveva un prezzo da rendere ad altri e che lui, per evitare un destino di schiavitù, aveva già pagato anticipatamente 50.000 dollari, per sé, sua moglie e il figlio, frutto del lavoro di una vita e delle commesse che gli altri figli gli mandavano da dieci anni.
Di certo quell'uomo anziano, buono e disperato, non voleva neanche immaginare quale sarebbe stato il loro destino: della giovinetta ammalata e di Ania stessa.
Fece, invece, una cosa che, prima di intraprendere quel viaggio avrebbe considerato imprudente e stupida: prese la sua scarpa e, con il tacco, mise a battere sulla parete e ad urlare. Parecchi altri lo imitarono; alcuni per compassione, altri per timore di venir contagiati.
Questa cosa andò avanti per un'ora piena prima che qualcuno da fuori sentisse il rumore ed ebbero una doppia fortuna.
La prima fu che il camion si era fermato sul ciglio della strada perché l'autista doveva urinare; la seconda fu che quell'uomo aveva una coscienza. Difatti come vide Maruska così malmessa, ricordandosi di avere con sé degli antibiotici - suo figlio grande, disse, aveva avuto la salmonellosi per ciò sapeva cosa fare contro quella malattia - glieli fece prendere e ne dette altri all'infermiere iracheno che sapeva bene quale fosse la posologia.
<<Dove siamo?>> Gli chiese Ania, ad un tratto, incoraggiata dai suoi modi affabili.
L'autista, un uomo sulla cinquantina, corpulento e stempiato, sorrise ma non le rispose. Allora Ania insisté e quello, descrivendo un arco con il braccio sopra l'orizzonte visivo di campi coltivati, le disse: <<in campagna, bambina. Adesso sali assieme agli altri.>>
Nella sua mente iniziò ad imprecare contro Dio, per la sua sfortuna che lo costringeva a fare quel lavoro meschino, e contro la razza umana, così meschina da ridurre i suoi simili in tali condizioni di miseria mentre altri facevano il bagno nel latte. Mentre probabilmente si chiedeva perché fosse stato così bastardo; perché non le aveva risposto.
La sera Maruska chiese qualcosa da mangiare e gli occupanti del camion festeggiarono lo scampato pericolo per la ragazza.
Fu una serata di gioia di quelle che Ania aveva dimenticato potessero esistere. Ma fu l'ultima per tanto, tanto tempo.
Erano passati quindici giorni da quella esperienza. Maruska non l'aveva più vista ma sapva o sperava che, da qualche parte, stesse bene.
Era sola, al centro di una stanza fredda e spoglia, debolmente illuminata. Era anche nuda perché i due albanesi, responsabili di quella sorta di campo di prigionia, le avevano strappato letteralmente di dosso gli abiti.
La ragazza non aveva protestato perché le era stato detto che nessuno le avrebbe usato violenza. Doveva semplicemente lavarsi, disinfestarsi da pulci, pidocchi ed ogni altro genere di parassita, per essere visitata e, quindi, vestita di abiti nuovi.
Ma erano passate già due ore dalla visita medica e ginecologica - per altro molto accurata - ed era stata condotta in quella stanza senza i vestiti promessi.
Aveva così cominciato a tremare per il freddo ed i capezzoli le si erano inturgiditi, perché la stanza non era riscaldata e da un luogo imprecisabile entrava un costante e gelido spiffero.
Si sedette così per terra, rannicchiandosi su me stessa per evitare ogni dispersione di calore e sfregandosi con le mani il corpo nella speranza che l'attrito la riscaldasse.
Poi, ad un certo punto, sentì provenire un rumore basso e sordo, come di sedie spostate, dalla parete di fronte dove si trovava uno specchio ampio e rettangolare a mezzo muro.
<<Mettiti in piedi!>> Urlò una voce da un altoparlante che, fino a quel momento, non aveva notato. Parlava un inglese stentato ma comprensibile.
La ragazza obbedì meccanicamente: era troppo frastornata e stanca per mettersi a fare le bizze.
<<Ora fai un giro completo su te stessa.>>
Fece quanto richiesto e attese stolidamente nuovi ordini.
Ad un certo punto sentì la stessa voce, appena udibile, che parlava in un inglese privo di inflessioni. Cercò allora di ascoltare quanto più poteva.
<<Base d'asta per il lotto: 3000 dollari. Si tratta di un campione di appena 13 anni con tracce di una recente deflorazione violenta, quindi virtualmente vergine. Chi offre 3100 dollari?>>
La trattativa proseguì per un po' mentre ascoltava quei monologhi, stupefatta di essere oggetto di una vendita come un qualsiasi oggetto o, al più, un cavallo.
Mentre le offerte crescevano, nella sua mente montava anche l'irritazione; tuttavia, ad un certo punto, una malevole curiosità, le placò la rabbia: voleva sapere che valore avrebbero dato alle sue quattro ossa.
<<10.000 dollari! Nessuno offre di più? 10.000 e uno, 10.000 e due, 10.000 e tre! Aggiudicato al signor Ramko Klodian.>>
"10.000 dollari!" pensò vagamente soddisfatta. "Il prezzo di un ottimo cavallo da monta!"
Rise di gusto come non faceva da parecchio. Quindi, in preda all'isteria, cominciò a correre e a nitrire tutt'intorno alla stanza. E fece così per un pezzo finché non entrarono due tipi rudi che l'abbrancarono e la portarono fuori.
<<Scherzavo.>> Implorò atterrita. Ma i due continuarono a trascinarla; allora chiese: <<dove mi portate? Che volete farmi? Vi prego, vi prego, lasciatemi.>> E scalciava e urlava come un animale portato al macello.
Fuori dalla costruzione c'era solo la campagna sorda e insensibile alle grida di una fanciulla mentre quelle viscide mani l'afferrarono saldamente ed ancora una volta, un maschio pieno di testosterone ma senza un briciolo di sensibilità, le entrava dentro.
Scoprì dopo che chi l'aveva comprata aveva voluto testare il suo acquisto. In effetti era stata stuprata con dovizia di particolari e con zelante professionalità da lui e dai suoi sgherri.
Ma stavolta non pianse: non aveva più un corpo quando capitava quella cosa. Era fuori, lontano. Dove nessuno poteva farle del male.
Rannicchiando le gambe sul suo petto, chiusa in una piccola stanza, rischiarata da una ridicola finestrella posta talmente in alto da sembrare un miraggio, e dove a malapena riusciva a fare due passi prima di sbattere al muro, cominciò a maturare la certezza che il mondo era una fogna e che lei doveva diventarne uno dei più astuti sorci.
Guardò con rabbia il rosario, l'unica cosa di sua proprietà che le avevano consentito di tenere - erano religiosi quegli animali - lo strappò dal collo con foga e lo gettò laddove la sua vista non l'avrebbe urticata.
<<Al diavolo anche Dio.>> E furono le ultime parole che pronunciò quel giorno prima di addormentarsi, cullata dal rumore del vento e dal suo odio per le creature del Signore.
...
Ancora una volta ingabbiata, fuori dal mondo, rubata della sua libertà e del suo corpo.
Da giorni, stuprata e picchiata, piangeva, ma senza che le scendessero lacrime. Non la consolava sapere che altre ragazze condividevano la sua sorte, perché il suo cuore bruciava di rabbia mentre le altre parevano rassegnate.
In un impeto di furia tirò la maniglia illudendosi di riuscire a spalancare la porta.
Ma quella non veniva via.
Si guardò attorno sentendosi braccata e senza via di scampo, mentre altre cinque ragazze la osservavano speranzose.
Le aveva conosciute solo qualche ora prima.
Quasi tutte provenivano dai paesi dell'est. Quasi tutte avevano una storia di abusi e miseria simile alla sua. Quasi tutte consideravano gli uomini solo esseri privi di gentilezza, pronti a usarti unicamente per il loro piacere.
Sentì, guardandole, di essere in qualche modo responsabile del loro destino. Come sua madre lo era stata del suo, solo che non poteva usare la morte come fuga perché non sarebbe stato giusto. E nemmeno dignitoso!
Da qualche tempo, aveva iniziato irrazionalmente a rimproverare la madre di essere andata via e di averla lasciata nelle mani di quell'animale! La sua morte, si diceva, l'aveva costretta alla fuga ed adesso ero sepolta viva in questo inferno. Per colpa sua!
Ania sapeva che non era andata proprio così e che quei pensieri erano ingiusti ma la rabbia era diventata la sua unica compagna. L'unica presenza tranquillizzante in un mondo di ombre viscide.
Quando era più tranquilla, quelle rare volte che succedeva, si ripeteva che era proprio una grande idiota a pensare queste cose di sua madre. Ma quello non era uno di quei momenti e la notte che era calata su di lei stava suggendo dal suo corpo anche le più recondite e flebili speranze che ormai le rimanevano.
L'unica certezza che le restava e che gli uomini erano tutti dei bastardi, perché nessun maschio era mai stato gentile, con lei!
E si ripeteva spesso che, se fosse riuscita a fuggire, non avrebbe permesso a nessun uomo di toccala. Non avrebbe amato nessun maschio, né avrebbe voluto dei figli, men che meno dei figli maschi.
Se da tutti quegli stupri fosse nato un uomo lo avrebbe affogato nel suo stesso cordone ombelicale!
<<Maledetti, maledetti!>> Urlava furibonda dando spallate alla porta. Ogni volta usava sempre più forza restando sorda al dolore che, formicolante, le saliva su per le spalle.
Ma la porta non cedette e lei proseguì finché una fitta le suggerì che stava raggiungendo il pericoloso limite fisico oltre il quale si sarebbe potuta procurare una lussazione o, peggio, una frattura.
Scorata si lasciò scivolare per terra rannicchiandosi ancora una volta, in posizione fetale ma vietando a se stessa, con l'ultimo barlume d'orgoglio che ancora possedeva, di piangere.
Rimase così, quasi in trance, per un bel pezzo, finché non sentì lo scalpiccio di passi.
Si rizzò, allora, veloce; pronta a tentare ogni cosa pur di fuggire. Ma ciò che vide la lasciò spaurita ed interdetta.
Quattro energumeni entrarono decisi disponendosi dentro la stanza in modo strategico e scoraggiando con la loro determinazione qualsiasi tentativo da parte delle prigioniere.
Un quinto individuo, il capo, quel bastardo che l'aveva stuprata troppe volte, più di quante avesse voglia di ricordare, entrò subito dopo tirando per il colletto della sua polo una bambinetta di non più di dieci anni.
<<Chi è la bambina?>> Ania fece la domanda sfoggiando la massima innocenza consentita dalla sua rabbia.
<<Una tua collega, puttanella!>> Rispose con aria beffarda l'uomo. <<Le farò personalmente il tirocinio, e tu sai quanto so essere istruttivo.>>
Con il sangue alla testa immaginò la piccola tra le spire bramose di quel bastardo e sentì salire il sangue alla testa: vide una ragazzina che conosceva bene, non troppo tempo prima, avvolta dall'abbraccio incestuoso del padre; sentì di nuovo quel dolore tra le sue gambe e nel suo cuore e scattò come una molla.
Riuscì a colpire quell'uomo diverse volte e le guardie del corpo ebbero quasi difficoltà a fermarla. Quando lo fecero Ania sentì solo il rumore della gragnola di schiaffi e pugni che ricevette in ogni parte del suo corpo ma non il dolore. Tanto che, per un attimo, pensò, grata quasi fosse una liberazione, che stava arrivando la morte. E difatti sussurrò: <<sto arrivando, mamma!>>
In quel breve e disperato momento si chiese se mai ci sarebbe stato qualcuno in grado di sentire la sua sofferenza.
...
Il giovane Carabiniere ebbe un sobbalzo quando il suo telefono cellulare iniziò a trillare. Il compagno scattò anche lui allarmato.
<<Sono io. Si. Dimmi dove si trovano e può essere che avrai la tua ricompensa. Sennò ti ieccu all'Ucciardone e non ti faccio uscire più!>> Passò qualche secondo poi concluse: <<l'hai fatta la cosa giusta, Nino!>>
<<Nuccio!>> Chiese l'altro. <<Allora?>>
<<Dobbiamo andare, Nicola!>> Strillò quello invitando il collega a mettere in moto.
<<Dove?>> Chiese quello cercando di ridestarsi al volo.
<<A Maredolce. Li hanno portati là! Il mio informatore mi ha detto che ce ne sono tante, tutte piccoline, alcune proprio bambine. Bisogna andare.>>
Nicola comprese al volo. <<Chiedo rinforzi?>>
<<Tutte le pattuglie che possono mandare!>>
...
Sentì un forte trambusto, e rumori e voci e quelle che le parvero delle sirene in lontananza.
Ma il suo corpo doleva e forse le sue orecchie erano bugiarde.
Il desiderio di morire le cresceva di momento in momento e la sua mente non era più lucida: a tratti era sveglia a tratti perdeva conoscenza.
Si sentiva come su un relitto in mezzo ai flutti e pregò forte che venisse un angelo a liberare la sua anima da quel corpo meschino che le aveva dato solo dolori.
Perse di nuovo conoscenza e quando si ridestò capii che era finita, che le sue preghiere erano state ascoltate perché un cherubino la reggeva tra le sue braccia e le sorrideva con il suo viso gentile e aggraziato e con i suoi occhi chiari come il cielo e dolci come quelli di un bambino.
Lo sentì sussurrarle all'orecchio di stare calma che ormai non aveva nulla da temere, che presto sarebbe stata bene.
Lo guardò meglio e capì di avere sbagliato: non era morta, e lui non era un angelo ma soltanto un poliziotto.
Non era quello che aveva sperato ma andava bene lo stesso.
E poi in quel momento non c'era alcuna differenza tra l'Arma e le sue sirene e le creature celesti con i loro cori: aveva pregato per la sua sorte ed era stata accontentata.
<<La bambina, salvala.>> Biascicò in Inglese, perché l'Italiano non lo aveva ancora imparato.
<<Tranquilla, sono tutte in salvo, e quei bastardi passeranno i migliori anni della loro vita in galera.>>
Sentendo ancora la sua voce intuì di essere veramente al sicuro perché lei quell'uomo lo conosceva!
Nel suo animo, malgrado le botte, gli insulti e i torti ricevuti, c'era una qualche immagine di uomo che ancora si salvava.
Che ancora poteva essere definita come qualcosa di pulito e non contaminato. Che magari un giorno poteva pure camminarle accanto senza temere che si materializzasse nuovamente quel destino che aveva già gustato senza riceverne alcun piacere.
E quell'uomo, quel Carabiniere gli assomigliava tantissimo ...

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