Tema: libero
Parole: 1375La nebbia si estendeva, grigia e morbida, a perdita d'occhio.
Il paesaggio era offuscato e scuro, come quelle foto sbagliate e sfocate, scattate per sbaglio, da cancellare.
Il gelo sembrava superare senza indugio la barriera protettiva che forniva la mia giacca a vento, provocandomi brividi sulla pelle.
Solo gli alberi, alti e neri, si stagliavano al di sopra di quel velo grigio: sbucavano però dalla foschia solo le loro cime, come fossero mani imploranti di naufraghi, in balia delle onde, nell'oceano.
La funivia giallastra e cigolante continuava a salire, verso una destinazione ancora ignota, immersa in una nuvola grigia.
Io ero l'unico passeggero, e quella salita infinita proseguiva ormai da mezz'ora. Avevo pensato di ammazzare il tempo, controllando se il mezzo fosse sicuro, ma non mi sarei per nulla rassicurato, vedendo qualche bullone arrugginito o una vecchia struttura cigolante.
Allora avevo iniziato a contare. Le cime di quei pini così alti, che sorvolavano la nuvola grigia, erano numerose: una, due, tre, quattro... prima o poi sarei arrivato a destinazione.
Intanto la funivia proseguiva la sua salita, ed io continuavo ad essere l'unico uomo nel raggio di, probabilmente, molti chilometri. Quel posto era deserto.
Ormai avevo perso il conto dei pini, e la mia attenzione si era spostata sulle cabine che lentamente discendevano, tornando a valle, verso la piccola stazione da cui erano partite.
Non trasportavano alcun passeggero, erano vuote e abbandonate: da quaranta minuti ormai non vedevo anima viva.
Ero salito sulla funivia giusta? Era questo il mezzo che mi avrebbe portato in cima al monte, verso le piste da sci? E se fosse stato così, dov'erano tutti gli altri?***
Avevo iniziato a sentire davvero freddo.
L'aria gelida mi entrava nei polmoni, ed un brivido invernale percorreva tutto il mio corpo, penetrando fin dentro le ossa.
L'assordante quiete che regnava su quel paesaggio deserto era troppa per i miei gusti: la calma piatta, propria dell'attesa, mi aveva sempre fatto impazzire. Il silenzio mi stava perforando i timpani.
Poi, improvvisamente, un rumore.
Un rumore, un rumore! Quel suono cristallino, così familiare, così umano: una risata! E non una risata qualunque, ma melodiosa e dolce, rassicurante come una bevanda calda, di quelle che sciolgono il ghiaccio annidatosi nelle ossa, avvolgendoti in una meravigliosa sensazione di tepore.
Impaziente, guardavo fissa la coltre di nebbia, aspettando che sbucasse fuori, da un momento all'altro, una funivia trasportante qualcuno, un'anima qualunque con cui avrei potuto scambiare qualche parola rassicurante nel vento.
Dopo molta attesa, eccola, finalmente: da lontano scorgevo una figura indefinita, costretta all'interno di un'altra cabina giallastra e cigolante, uguale alla mia, ma che proseguiva nel verso opposto. La figura si avvicinava sempre di più, e riuscivo quasi a vederne i contorni.
Un viso dai lineamenti delicati, capelli scuri e fluenti, fisico alto e slanciato.
Dieci metri, sei, quattro, tre... ero quasi vicino a toccarla, ad accarezzare i suoi lunghi capelli. Poi, finalmente, alzai lo sguardo verso i suoi occhi, che incontrarono i miei.
Ci scrutammo a lungo. Tutto successe quasi a rallentatore.
Era bella, molto bella. Labbra rosse come il sangue, carnagione pallida come la neve. Ma i suoi occhi... i suoi occhi erano il problema. Brillavano, scintillavano di un argento puro, quello con cui si creano i migliori gioielli. In quegli occhi c'era il luccichio di un predatore feroce, cattivo. Quegli occhi non promettevano niente di buono.
E a nulla servì quella voce interiore che mi avvertiva: "Le Sirene esistono anche nel cielo."
All'improvviso, ci fu un forte stridio.
La funivia fermò la sua salita.***
-"Avremo più tempo a disposizione, ora." Disse, con lo stesso timbro profondo e melodioso che ricordavo di aver sentito nella sua risata.
-"Tempo? Per cosa, esattamente?"
Non sono mai stato molto sicuro di me stesso: nei momenti di paura cerco di apparire spiritoso, deciso e sfrontato, ma spesso non ottengo questo risultato. Così successe. Il mio tono non scalfì per nulla la quiete della donna, una quiete talmente inflessibile da essere quasi comparabile alla calma glaciale di quel luogo.
-"Per spiegarti."
-"Per spiegarmi... cosa?" Esclamai, frustrato. Le mie parole rimbombarono nel grigio nulla che ci circondava.
-"Mi chiamo Lethe." Affermò, ignorando la mia domanda.
Mi voltai. La nebbia era ancora fitta, e le cabine gialle ancora ferme, sospese nel vuoto.
La voce della donna risuonò alle mie spalle, provocandomi un brivido di paura.
-"Il mio nome significa Oblio, Ombra, Dimenticanza. Letteralmente: "Ciò che si dimentica""
-"Quanto a te... perché sei qui?" Chiese ancora.
La mia voce si fece incerta.
-"I-i-io credevo di essere salito sulla funivia giusta. Doveva essere un pomeriggio di libertà, una semplice giornata all'aria aperta." Replicai, titubante.
I suoi occhi argentei mi scrutarono, senza lasciar trasparire alcuna emozione. Scintillavano.
-"Credo invece che tu sia qui per dimenticare."***
Dimenticare? Cosa avrei dovuto dimenticare? Ma, soprattutto: perché farlo? Non capivo.
Sebbene tutte le mie domande fossero senza apparente risposta, non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella figura eterea e misteriosa. Ero affascinato, ammaliato e, allo stesso tempo, intimorito. Eppure, non volevo andarmene, non provavo il desiderio di scappare. Avevo deciso di rimanere lì e che, qualunque situazione mi si fosse presentata davanti, l'avrei affrontata.
Lethe continuava a guardarmi fisso negli occhi, senza smuovere il suo sguardo di un millimetro.
Infine, disse solo: "Buon viaggio, Mortale."
Con un cigolio, quasi ad obbedire alle parole della donna, le cabine ripresero a muoversi, e l'ultima cosa che vidi di lei fu una figura senza contorni scomparire nella fitta nebbia.***
Ero ormai in viaggio da tempo. Troppo tempo.
La nebbia era sempre più grigia, densa, ed io avevo iniziato a provare una strana sensazione di terrore e sperdimento.
Sarei mai tornato a casa?
Continuavo a salire verso l'alto, e ad ogni metro la temperatura sembrava diminuire drasticamente. Non percepivo più le dita delle mani, né quelle dei piedi.
Intorpidito dal freddo, mi rannicchiai in un angolino della cabina, e aspettai. Aspettai per un tempo che mi sembrò infinito: l'attesa sarebbe potuta durare minuti, ore, giorni, ma io avevo ormai perso la cognizione del tempo.
Era tutto un lungo, lento, infinito incubo.
Poi, finalmente, successe qualcosa.
Le cabine si bloccarono.
La porticina cigolante si aprì.
Titubante, non osavo uscire dal mio rifugio giallo e arrugginito: la nebbia era ancora più fitta, lassù, e non riuscivo a vedere al di là del mio naso.
Nonostante la mia accortezza, però, mi sembrava di essere arrivato sulla cima del monte, ed ero molto curioso di sapere ciò che mi avrebbe aspettato. Forse, quella donna era stata solo frutto della mia immaginazione. Forse, il troppo freddo mi aveva dato alla testa. Forse mi ero preoccupato tanto per nulla.
I miei piedi, doloranti per il gelo, ma incoraggiati dalla speranza, toccarono terra.
Cercai di orientarmi. Tutto ciò che vedevo, però, era un'enorme, densa macchia grigia. Allora, commisi un grave, gravissimo errore: inspirai quell'aria maledetta a pieni polmoni. La nuvola grigia mi avvolse completamente, invadendo tutto il mio corpo. Entrava nella bocca, nel naso, nei polmoni. Ghiacciava i muscoli, gelava il cuore.
Poi, chiusi gli occhi. Caddi.
Buio.
Nulla.
Ombra.
Oblio.***
Mi svegliai di soprassalto in un letto sconosciuto, tra le pareti di una stanza che non mi era familiare.
Guardai l'orario su una sveglia digitale che non avevo mai visto prima: 06:04.
Mi alzai, scostando violentemente le coperte con una mano.
Presto mi accorsi di essere solo.
Vagando e vagando per i corridoi di una casa che sembrava essere gigantesca, trovai il bagno. Presi in mano uno spazzolino azzurro e, dopo averlo cosparso di dentifricio, iniziai a lavarmi con cura l'interno della bocca.
Poi, all'improvviso, alzai gli occhi verso il mio riflesso. Uno sconosciuto dall'aria stanca, che dimostrava meno di una trentina d'anni, mi fissava dall'altra parte dello specchio.
Capelli scuri, barbetta, occhiaie profonde. Qualcosa non andava, ma non ci feci caso, e continuai a spazzolarmi le gengive. Dopotutto, mi sarei dovuto preparare in fretta, per...
Per cosa? Ero confuso. Domande su domande iniziarono ad affollarsi nella mia mente, scalpitando, ma senza trovare la loro risposta.
Quale mestiere facevo? Per chi lavoravo? Ma, soprattutto... qual era il mio nome?
Poi, all'improvviso, delle parole familiari risuonarono nella mia mente.
-"Mi chiamo Lethe... Il mio nome significa Oblio, Ombra, Dimenticanza. Letteralmente: "Ciò che si dimentica" "
"...Credo invece che tu sia qui per dimenticare."
A quel ricordo, l'unico che mi resi conto di possedere, impallidii.-
Nota dell'autrice per lettori di passaggio:
Questo racconto è ispirato alla mitologia greca. So bene che, nei miti e nelle leggende, l'elemento "magico", ossia quello che permette agli uomini di dimenticare tutto ciò che sono, è il fiume Lete, a cui è stato dato il nome di Lethe, una divinità minore, figlia di Eris, la dea della discordia. Nonostante questo, la mia fantasia ha preso un po' il sopravvento. Nella mitologia non esiste una nebbia capace di far dimenticare, e non credo che Lethe fosse una donna dai luccicanti occhi argentei. Purtroppo, però, nella mia testa matta tutto è possibile.
All the love,
Una pazza.
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The Writing Stars: Team 9/2 & 7/8
FantasyRacconta di OS per il concorso: "The Writing Stars". Grazie per l'opportunità. Ah e... tu, lettore capitato per caso: leggi, male non può fare.