Prologo

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I sani principi alla base della nostra esistenza, hanno fatto germogliare nella mente umana un inscalfibile concezione del mondo decisamente estranea alla nostra rinomata volontà.

Nell'immenso ignoto che inghiotte ogni componente del mondo umano, siamo stati indotti a credere in una catagolizzazione dell'esistenza:giusto e sbagliato, bianco e nero, vero e falso, casualità e destino.

La convinzione terrestre di poter trattenere tra le mani quest'ultimo termine sopra citato come uno shooter esperto: l'inganno della coscienza umana lanciata assieme ad una coppia di dadi, abbandonati ad una sorte che in ogni caso non soddisferà la percezione dell'uomo perennemente contraddittorio.

Ma il fatto è che il destino dell'uomo viene affidato erroneamente ad un semplice e scontato gioco.

Eveline, nel piccolo della sua ingenuità, non ha mai avuto problemi ad ammettere che era veramente una frana a giocare a nascondino da bambina, non riusciva mai a trovare dei nascondigli adatti: troppo piccolo, troppo scoperto, o troppo semplice da trovare.

Ma se ci pensasse, purtroppo ancora non riuscirebbe a capire il senso di quel gioco così semplice agli occhi di un bambino, il nascondersi dall'ignoto consapevoli di dover fronteggiare prima o poi la verità, ma pur sempre godendosi per un attimo quel sapore amaro e dolce che dona il flebile limbo tra la realtà e la fantasia, tra la speranza e la consapevolezza .

Possiamo gongolare inconsciamente in quel limbo, nasconderci meglio, ma la sorte, come un cane che addenta un succoso pezzo di carne con ingordigia, non ci lascia, non abbandona la sua ricerca finché non ci scova nascosti nel nostro rifugio infliggendoci quello schiaffo sordo o quella carezza magnanima che sia, rigenerando di nuovo quel circolo vizioso che continua a ripetersi ininterrottamente nell'esistenza dell'uomo: la ruota gira, i pezzi si congiungono, e il karma agisce, solito ciclo, solita fortuna o sfortuna.

Eveline lo sapeva meglio di tutti che il mondo non poteva che continuare a girare indisturbato, poi, un giorno sarebbe finito tutto, sparito nel nulla, e fanculo ai sogni, ai desideri, ai traguardi, ce ne era poco di tempo forse non abbastanza per rendere tutto questo qualcosa di più di una semplice utopia agli occhi della gente, ma sapeva che esternandosi giusto un po' dal resto, forse si sarebbe sentita meno responsabile di quell'ideale conformista.

Si, Eveline lo sapeva bene...

Ma in fin dei conti, adesso, pensandoci qual'è il nascondiglio perfetto? Nessuno.

Non esistono nascondigli, non si sfugge al destino, bisogna solo correre per arrivare prima di lui, precederlo, raggiungerlo e sorpassarlo, ma di sicuro non arrivare dopo, perché ciò che accadrà sarà irrimediabile, dobbiamo solo essere svelti a fare tana.

"Hunt, tocca a te" la voce del presentatore incravattato nel suo smoking bordeaux, risuonava nell'aria circostante vuota e fredda.

Si erano già esibiti tutti, rimaneva solo lei, lì, seduta su uno sgabello scomodo e rivestito di un tessuto fastidiosamente verdastro.

La sua mano sorreggeva la cornetta del telefono a muro a mezz'aria che continuava a trasmettere voci ad intermittenza, travestiti da brusii fastidiosi.

"Io no-n...non pos-s-o" nel momento esatto in cui l'ultima parola interrotta dal suo balbettare lasciava le labbra schiuse, la cornetta cadde violentemente dalla sua mano urtando con un tonfo sonoro il muro.

Lo sguardo confuso e in parte arrabbiato del presentatore puntato su di lei, mentre con le braccia al petto e il piede intento a picchiettare le travi di legno sottostanti, indicava con insistenza l'orologio al suo polso.

Senza proferire parola con gesto veloce e impacciato, riprese i fogli sparsi disposti davanti a lei, mentre vedeva scorrere tutta la fatica, il tempo e l'amore che aveva dedicato a quel pezzo impegnativo, svanire nell'aria, scomparire completamente, ma non se ne preoccupava in quel momento, non era importante.

Delle lacrime salate gli rigavano il volto, gli occhi soddisfatti del presentatore erano ancora fissi su di lei, mentre rimetteva in spalla la sua borsa a tracolla completamente rovinata e scucita, per poi correre verso l'uscita d'emergenza segnata da una forte luce verde.

Dei vocii silenziosi e contenuti provennero dalla platea del teatro, la luce accecante dei lampioni sul marciapiede gli impediva la visuale, i piedi continuavano il loro percorso da soli calpestando con forza le foglie secche, i suoi occhi cercavano in tutti i modi di contenere le lacrime, asciugando con la manica della giacca nera quelle poche che riuscivano a calare sulle guance.

Non appena un tonfo, poi due e alla fine un terzo, occuparono l'aria fredda, si strinse nella giacca con la speranza di riscaldarsi, inutilmente visto che il picchiettare delle gocce raggiunse in poco tempo la sua testa che pian piano iniziava a pesare per i capelli bagnati.

Le lacrime si fondevano alla pioggia, le pozzanghere iniziavano a formarsi sulla strada asfaltata, i vestiti si riempivano d'acqua fredda, e i piedi calpestavano incuranti il marciapiede ruvido.

La sua testa era completamente vuota, come un campo di grano d'inverno, freddo e monocolore, senza quel giallo scintillante smosso dal venticello caldo.

Pensare che lei stessa la sera precedente assieme a Josh, avevano portato quel maledetto furgone arrugginito a fare la revisione le faceva rivoltare lo stomaco annodato che assieme al cuore si smuoveva velocemente dentro di lei in una contorta danza.

Non si aspettava di trovarsi davanti una bella scena, era impossibile trovarla, ma qualcosa, forse, una minima speranza che fosse così, che non fosse accaduto quello che pensava, doveva correre, doveva raggiungere il destino, doveva farlo per lui e per se stessa.

I piedi iniziavano a calpestare con più forza e più velocemente, il vento sferzava tra i suoi capelli che continuavano a muoversi, i palazzi, le automobili, passavano accanto a lei come lampi sfuggiti, mentre la pioggia s'intensificava sempre di più, picchiettando sul suo corpo.

Finché il rumore assordante delle sirene ad intermittenza raggiunse le sue orecchie, le lacrime continuavano ad accumularsi ai lati dei suoi occhi arrossati, le trattenne per l'ennesima volta, il cuore sembra voler esplodere nel suo petto affranto mentre continuava a scuotere la testa incredula.

Sangue, sangue e...lui.

Non ha mai chiesto niente dalla vita, non ha mai voluto niente da essa, perché ha sempre pensato che fosse come fare un patto con il diavolo, non ci assicura niente, dobbiamo solo buttarci in quel vortice di fiducia, infido e maligno, ma cosa poteva fare una ragazza di quindici anni?

Le gambe tremavano mentre si accasciava sull'asfalto umido, la pioggia continuava ad avvolgere il suo corpo, delle urla che facevano vibrare la gola uscirono dalle sue labbra, urla di dolore, le unghie raschiavano la strada bagnata mentre si chiudeva in se stessa, come un bocciolo di rosa troppo delicato per appassire ma con troppi pochi petali per vivere, respingendo chiunque cercava di avvicinarsi.

È troppo tardi, non era riuscita a fare tana.

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