Capitolo 1

19 1 1
                                    

Nelle settimane successive all'annuncio in TV la città non sembrava più la stessa. Sembrava quasi che tutti cercassero di essere perfetti. Anche le cose più semplici, come le bancarelle del mercato o la cura che gli spazzini mettevano per pulire le strade la notte, tutto era diventato migliore. Più ordinato, pulito, semplicemente migliore. Le ragazze giravano per la città nel loro abito migliore, con il viso truccato e i capelli sempre ordinati, e camminavano lentamente, guardandosi intorno con attenzione, gli occhi che guizzavano da una parte l'altra, alla ricerca di uno straniero, o anche solo di un viso sconosciuto. Le più giovani erano quelle più divertenti da osservare. Giravano in gruppi da tre o quattro, e avresti potuto pensare che fossero amiche, ma a guardarle per più di trenta secondi era chiaro che non si sopportavano perché una aveva i capelli più lisci dell'altra, o il vestito più particolare. A guardarle per più di trenta secondi diventava una messinscena davvero triste. Anche quelle più grandi andavano in giro nella speranza di vedere il principe. le poche volte che uscivo di casa in quel periodo me ne pentivo amaramente, ma passavo la maggior parte del tempo chiusa in camera mia a cercare di capire cosa stesse succedendo.

Nemmeno Sam riusciva a sopportarmi più di tanto in quel periodo. In realtà non potevo biasimarlo: ero di cattivo umore praticamente tutto il giorno e ogni volta che provavo ad alzarmi dal letto sentivo uno strano formicolio in tutto il corpo, come una specie di prurito. La maggior parte delle volte sentivo il bisogno di sfogarlo sulla prima cosa che mi si parava davanti, e lanciavo contro il muro o per terra tutte le cose che mi capitavano tra le mani, in una specie di rito che era diventata un'abitudine. Continuavo a stringere tra le mani i poveri oggetti finché non sentivo i palmi bruciare dallo sforzo, e a quel punto li scagliavo con un urlo rabbioso, godendo se li vedevo spezzarsi. Continuavo finché non mi faceva male la spalla. Solo a quel punto mi calmavo e tornavo a letto.

Nella nostra regione ottobre era il mese più piovoso dell'anno. Avevo sempre amato la pioggia. Io, Sam e nostro padre, quand'ero bambina, andavamo sempre per funghi dopo la pioggia, e quando tornavamo a casa la mamma faceva la cioccolata calda con la panna, e tutti eravamo felici. Ogni tanto lo facevamo ancora, ma Sam era diventato allergico al cioccolato da poco quindi addio cioccolata, e la mamma diceva di non riuscire più a digerire i funghi come una volta, quindi addio funghi.
A parte i funghi però, avevo sempre amato la pioggia in generale: il melodioso ticchettio sua stoffa degli ombrelli, i piccoli specchi d'acqua per strada, e l'odore di foglie bagnate. Per questo non riuscivo a capire perché ultimamente ogni volta che c'era la pioggia mi sentissi male. Le mie forze  calavano precipitosamente, facendomi girare la testa, e la vista mi si appannava. Nell'ultima settimana mi era capitato per ben due volte di svenire per strada e accasciarmi per terra. Mi risvegliavo sempre subito, dopo nemmeno un minuto, ma non riuscivo davvero a capire cosa mi stesse capitando.
Nel momento esatto in cui la pioggia cessava mi sentivo bene, e tutta la spossatezza, il mal di testa, e i dolori sparivano come se non ci fossero mai stati.
Quel giorno, me lo ricordo bene, stava piovendo. Non eravamo andati a scuola perché il bagno delle ragazze al primo piano aveva allagato tutto il corridoio principale, e io mi ero rintanata in camera mia. In realtà era quasi una settimana che non andavo a scuola e la mattina nemmeno uscivo dalla mia stanza. Nessuno mi aveva disturbata, mia madre era stata incredibilmente comprensiva. Di solito voleva che mi misurassi la febbre almeno tre volte, e se non superava i trentotto gradi per lei non c'era nessun motivo per saltare la scuola. Ma in quei giorni le bastava guardarmi per capire che davvero non stavo bene. Quel giorno in particolare. Avevo la gola e i polmoni in fiamme e le mani rosse e bollenti. "Stai tranquilla tesoro tra poco starai meglio." Mi aveva detto mia madre. Per poco non mi ero strozzata con l'acqua che mi aveva portato. Mia madre non mi aveva mai chiamata tesoro. Mi ero limitata a sorriderle e a dire "Ma sì, è solo una piccola influenza." Lei aveva annuito sovrappensiero, con lo sguardo di chi sente dire dal proprio figlio di aver visto Babbo Natale dalla finestra. Lo sguardo di chi sa che non è vero, ma non ha il cuore di dirlo. "Stai tranquilla, tornerà tutto normale, fidati. In poco tempo saprai cosa fare, e tutto tornerà come prima." Sussurrò, ma ebbi l'impressione che stesse cercando di rassicurare se stessa. Il sole stava tramontando e la poca luce rimasta le si proiettava sul viso, disegnando più rughe di quante ne avesse davvero. Aveva la faccia stanca, quasi spossata. Non avevo mai visto mia madre così, e mi spaventava più del fuoco che mi sembrava di avere nelle vene al posto del sangue e che mi faceva morire dal caldo anche nelle notti più fredde.
Prima che uscisse ebbi l'impressione che una lacrima le rotolasse lungo la guancia, ma non feci in tempo a capire se me lo fossi solo immaginato che aveva già chiuso la porta.

Nelle settimane successive i miei genitori mi trattarono come se fossi un vaso di cristallo che si sarebbe potuto rompere da un momento all'altro. A cena mi facevano mangiare quanto volessi, e nonostante non avessi mai molto appetito, mio padre insisteva quasi sempre perché facessi il bis. "La nostra principessa deve rimanere in forze" diceva ridacchiando, ma era una risata forzata e sapevo benissimo che non potevamo permetterci tutto quel cibo. La maggior parte delle volte davo il mio piatto a Katy, o a Sam. Katy aveva solo dodici anni e mi guardava quasi con invidia quando papà mi riempiva di nuovo il piatto. Sam stava zitto e osservava in silenzio ogni mio movimento, preoccupato. Era diventato ancora più silenzioso del solito da quando stavo male. Le uniche parole che gli avevo sentito dire da allora erano "stai diventando sempre più pallida." Mia madre gli sferrava un calcio sotto al tavolo, o gli dava una gomitata tutte le volte e cercava di contraddirlo, ma sapevo benissimo che aveva ragione. Sembravo un fantasma: la mia pelle era bianco latte, anche se la sentivo bruciare in continuazione, e due occhiaie violacee mi solcavano il viso. Persino i miei occhi, l'unica cosa in cui assomigliavo a mio padre, che di solito erano azzurro brillante con delle scaglie dorate sembravano smorti e le mie labbra si confondevano quasi con il colore della pelle. Più i miei genitori mi assecondavano e mi trattavano con i guanti, più mi infastidivano. Cercavo di farli arrabbiare in qualsiasi modo, avevo cominciato mangiando coi gomiti sulla tavola, cosa che mia madre non sopportava, e a ruttare appena finito di mangiare, e quando avevo ricevuto solo un sorriso leggermente sorpreso in risposta ero passata a cose più drastiche. Certe volte, quando facevo commenti cattivi o rispondevo male a mia sorella a cena, e la loro reazione era solo uno sguardo di comprensione, mangiavo con le mani o mi alzavo nel bel mezzo della cena senza dire nulla e tornavo in camera. Ma nemmeno così venivo sgridata. Provavo a essere più brusca e antipatica del solito, spingevo mia sorella per farla cadere dalla sedia, aprivo tutte le finestre di casa quando faceva più freddo, una volta avevo persino messo sotto la pioggia la legna che serviva per il fuoco, rendendola praticamente inutilizzabile. Una sera, dopo cena, quando avevo chiesto che non accendessero il fuoco, nonostante Katy stesse tremando dal freddo, e venni accontentata mi arrabbiai così tanto che cominciai a urlare. Mi ero messa davanti a mia madre, con i piedi piantati per terra, e le avevo detto che era una stupida se pensava di non potermi sgridare solo perché non stavo bene. Che non poteva condizionare un'intera famiglia per assecondare una figlia. Katy mi aveva guardata atterrita, mentre salivo le scale per tornare in camera. La sentii domandare cosa mi stesse succedendo. Mi fermai con un piede a mezz'aria per sentire la risposta, perché nemmeno io sapevo cosa stesse succedendo, e non capivo nemmeno perché ancora non avessimo chiesto parere ad un medico. "Zoe... Sta male." Pensai che non ci volesse un genio per capirlo e stavo per continuare a salire le scale quando sentii qualcos'altro "Ha una malattia che aveva anche mia madre. Non è pericolosa per lei, ma per gli altri sì. Non dovete farla arrabbiare, e non dovete nemmeno dire a nessuno quello che sta succedendo. Dovete aiutarci a proteggerla." Il silenzio che venne dopo fu il più pesante che ebbi mai sentito. Lo spezzò mio padre, mormorando "Dobbiamo proteggerla tutti.'

FiammaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora