Sono un uomo piuttosto avanti negli anni. La natura della mia professione mi ha portato, nel corso degli ultimi tre decenni, in contatto, e non soltanto nel solito contatto, con una categoria di uomini interessante all'apparenza e in qualche modo singolare, sui quali, per quanto ne so, finora non è mai stato scritto nulla: mi riferisco ai copisti legali ovvero agli scrivani. Nella mia vita professionale e privata ne ho conosciuti moltissimi e, se volessi, potrei raccontare varie storie che farebbero sorridere i benevoli e piangere i sentimentali. Ma per qualche brano sulla vita di Bartleby, il più strano che abbia mai visto o conosciuto, rinuncio alle biografie di tutti gli altri. Mentre di molti scrivani potrei narrare l'intera vita, non si può fare nulla del genere per Bartleby. Non esiste materiale - ne sono convinto - per comporre una biografia completa e soddisfacente di quest'uomo. È una perdita irreparabile per la letteratura. Bartleby fu uno di quegli individui sui quali non si riesce ad accertare nulla, senza risalire alle fonti originali, nel suo caso molto esigue. Quello che videro i miei occhi attoniti: ecco ciò che so di Bartleby, tranne, invero, una vaga notizia che apparirà in seguito.Prima di introdurre lo scrivano, quale mi apparve la prima volta, è opportuno che accenni a me, ai miei employés, al mio lavoro, al mio ufficio e all'ambiente in generale, perché si tratta di ragguagli indispensabili per capire in modo adeguato il protagonista che fra poco sarà presentato. Anzitutto, sono un uomo che, dalla giovinezza in poi, ha maturato una profonda convinzione: nella vita la via più facile è la migliore. Ne consegue che, pur svolgendo una professione proverbialmente esuberante e a volte concitata al limite della turbolenza, non ho mai lasciato che cose del genere sconfinassero nella mia pace. Sono uno di quegli avvocati privi di ambizioni, che mai si rivolgono alla giuria e in nessun modo inseguono l'applauso del pubblico, ma che, nella tranquilla frescura di un angolino appartato e discreto,si dedicano a un lavoro discreto fra i titoli, le obbligazioni, le ipoteche di uomini abbienti. Quanti mi conoscono mi considerano una persona eminentemente cauta e fidata. Il compianto John Jacob Astor, personaggio poco incline ai voli poetici, non esitava a dichiarare che la mia prima virtù era la prudenza; la seconda, il metodo. Non lo dico per vanità,ma soltanto per attestare il fatto di aver prestato i miei servigi al compianto John Jacob Astor, nome che adoro ripetere,lo ammetto: possiede infatti un suono rotondo e sferico, tintinnante come l'oro. Aggiungerò di mia iniziativa di non essere stato insensibile alla buona opinione che di me aveva il compianto John Jacob Astor. Qualche tempo prima dell'epoca in cui ebbe inizio questa breve storia, il mio lavoro era molto aumentato. Mi era stato conferito il buon vecchio incarico di giudice dell'Alta Corte di Equità, ufficio ormai abolito nello stato di New York. Non era una carica molto gravosa, ma assai piacevolmente remunerata. Di rado perdo la calma, ancora più di rado mi abbandono a una pericolosa indignazione davanti ai torti e agli oltraggi, ma - mi sia concesso a questo punto di essere avventato - dichiaro che, a mio avviso, l'abrogazione subitanea e violenta dell'ufficio di giudice dell'Alta Corte di Equità, da parte della nuova legge, fu... un atto prematuro, tanto più che avevo contato su quei benefici per il resto dei miei giorni, mentre ne godetti soltanto per alcuni brevi anni. Ma questo è detto tra parentesi.Il mio ufficio era al primo piano di Wall Street, n. - Da un lato le finestre si affacciavano sul muro bianco di un ampio cavedio, che prendeva luce da un lucernario e attraversava la casa da cima a fondo.Questa veduta forse poteva sembrare più scialba che suggestiva, carente com'era di quanto i pittori paesaggisti definiscono «vita». Ma, se così era, la vista sull'altro lato dell'ufficio, offriva, almeno, un contrasto. Su quel versante le finestre dominavano in pieno la vista di un alto muro di mattoni, annerito dagli anni e incupito dalla perenne ombra.Non occorreva che un cannocchiale ne rivelasse le bellezze nascoste, perché, a beneficio degli osservatori miopi, queste risaltavano a meno di dieci piedi dai vetri delle mie finestre. La circostanza che gli edifici intorno fossero molto alti e che il mio ufficio fosse al primo piano faceva sì che lo spazio fra questo muro e il mio assomigliasse a un'enorme cisterna quadrata.Nel periodo appena precedente l'arrivo di Bartleby avevo al mio servizio due persone in qualità di scrivani e un ragazzo promettente che faceva da fattorino. Il primo, Tacchino; il secondo, Pince-Nez; il terzo, Zenzero. Nomi questi che non si trovano forse nei registri: a dire il vero, erano nomignoli che i tre si erano reciprocamente affibbiati e -pareva - esprimevano bene le rispettive persone e i rispettivi caratteri. Tacchino era un inglese basso e asmatico, della mia stessa età, cioè non lontano dai sessant'anni. Al mattino, si potrebbe dire, il suo volto aveva un bel colorito florido,ma dopo le dodici, mezzodì - l'ora di pranzo - si accendeva come la grata del caminetto a Natale, e continuava a fiammeggiare - ma, per così dire, smorzandosi a poco a poco - fino alle sei o giù di lì, dopo di che non vedevo più il proprietario di quella faccia che, raggiungendo il pieno fulgore con il sole, sembrava tramontare con questo, per sorgere,culminare, declinare il giorno successivo, con pari regolarità e altrettanta gloria. Esistono molte coincidenze singolari che ho conosciuto nel corso della vita, non ultima quella che, esattamente quando Tacchino irradiava tutto il suo fulgore dal volto rosso e raggiante, proprio allora, in quel momento critico, aveva inizio la fase quotidiana nella quale, a mio avviso, le sue capacità professionali erano gravemente compromesse per ciò che restava delle ventiquattro ore della giornata. Non che allora rimanesse a girarsi i pollici, o mostrasse avversione al lavoro: lungi da ciò. Anzi: il guaio era che si affaccendava troppo. Cadeva in preda a una strana furia arruffata e pasticciona. Era sbadato nell'intingere la penna nel calamaio. Le macchie sui documenti cadevano tutte allora, dopo le dodici. Invero nel pomeriggio non era soltanto sventato e tristemente incline a fare macchie, ma, in alcuni giorni, ne combinava di peggio e si faceva rumoroso. In queste occasioni la sua faccia accesa avvampava ancora di più, quasi che sull'antracite avesse rammucchiato carbone tipo cannel. Con la sedia faceva chiasso a non finire; rovesciava lo scatolino della sabbia;nell'aggiustare le penne, per l'impazienza, le faceva a pezzi e le buttava per terra, preso dalla rabbia; si alzava, si sporgeva oltre il tavolo, metteva a soqquadro le carte in modo addirittura indecoroso: insomma davvero uno spettacolo triste in un uomo della sua età. Era tuttavia per me un collaboratore prezioso, che fino a mezzogiorno si dimostrava,come pochi, persona pronta, equilibrata e assidua, capace di svolgere una grande mole di lavoro di qualità non facilmente uguagliabile. Ecco perché chiudevo un occhio sulle sue bizzarrie, sebbene di tanto in tanto, invero, gli rivolgessi le mie rimostranze. Lo facevo con molto tatto, perché, mentre al mattino era il più civile, garbato, rispettoso degli uomini, nel pomeriggio, se provocato, rischiava di ricorrere a parole un po' avventate, anzi insolenti. Ora tenendo,come facevo, in grande considerazione i suoi servizi mattutini, e deciso - a non perderli - tuttavia, sentendomi nello stesso tempo a disagio per i suoi modi pomeridiani così esuberanti - ed essendo un uomo pacifico, poco propenso a suscitare con i miei rimproveri reazioni disdicevoli da parte sua, mi decisi, un sabato pomeriggio (al sabato era peggio che negli altri giorni), ad accennargli, con molto garbo, che, forse, ora che invecchiava, avrebbe ben potuto ridurre l'orario di lavoro; insomma non era necessario che venisse in ufficio dopo le dodici, ma, una volta finito il pranzo, gli sarebbe convenuto ritornarsene a casa a riposarsi fino all'ora del tè. Niente da fare: insistette nel dedicarmi i suoi servizi pomeridiani. il volto gli si infervorò da far paura, mentre con piglio oratorio mi assicurava - gesticolando con un lungo righello all'altro capo della stanza - che, se erano utili i suoi servizi mattutini, non erano forse indispensabili quelli pomeridiani?«Con tutto il rispetto, signore», disse Tacchino in questa occasione, «mi considero il suo braccio destro. Al mattino mi limito a ordinare in grande spiegamento le mie schiere, ma nel pomeriggio mi metto alla loro testa audacemente attacco il nemico, così», e con il righello vibrò una violenta stoccata.«Ma le macchie, Tacchino», insinuai timidamente.«Vero, signore, ma con tutto il rispetto, guardi questi capelli! Sto invecchiando. Di sicuro non si può rimproverare a questi capelli grigi una macchia o due in un pomeriggio caldo, signore. La vecchiaia, anche quando imbratta una pagina, è onorevole. Con rispetto, signore, tutti e due stiamo invecchiando».Difficile resistere a quell'appello alla mia solidarietà. Capivo in ogni caso che di andarsene non se ne parlava.Risolsi, perciò, di lasciarlo stare, decidendo tuttavia di provvedere a che nel pomeriggio trattasse documenti di minor conto.Pince-Nez, il secondo della lista, era un giovanotto di circa venticinque anni, giallognolo, con basette e,nell'insieme, con un'aria piratesca. Ho sempre ritenuto che fosse la vittima di due influssi malefici: l'ambizione e la cattiva digestione. L'ambizione si manifestava in una certa insofferenza per i compiti di mero copista, che inammissibilmente usurpavano gli affari strettamente professionali, come la stesura originale di documenti legali.Quanto alla cattiva digestione, ne erano sintomi una saltuaria irascibilità e ringhiosa irritabilità che gli facevano arroterai denti in modo udibile per errori commessi nel copiare: imprecazioni inutili, sibilate più che scandite a parole nell'incalzare del lavoro, e soprattutto la perpetua scontentezza per l'altezza della scrivania. Sebbene avesse un'inclinazione ingegnosa alla meccanica, Pince-Nez non riuscì mai ad adattare il tavolo alle proprie esigenze. Metteva sotto pezzi e pezzettini di vario genere, blocchetti di cartone: per ottenere uno squisito equilibrio arrivò all'estremo tentativo di utilizzare strisce di carta assorbente piegata. Ma inutili erano tutti i colpi di genio. Se, per dar sollievo alla schiena, alzava il ripiano del tavolo ad angolo acuto portandolo quasi sotto il mento e vi lavorava come chi usasse per scrivere il tetto spiovente di una casa olandese, allora dichiarava che così gli si bloccava la circolazione delle braccia. Se allora abbassava il tavolo fino alla vita e vi si piegava sopra per scrivere, ecco che insorgeva un acuto dolore alla schiena. Insomma, la verità era che Pince-Nez non sapeva quello che voleva. Oppure, se qualcosa voleva, era di sbarazzarsi una volta per tutte del tavolo da scrivano. Fra le manifestazioni della sua morbosa ambizione c'era una propensione entusiastica a ricevere le visite di certi individui loschi, intabarrati in malconce palandrane, che egli chiamava suoi clienti. Ero al corrente, in verità, che non soltanto si dava da fare, a volte, in una circoscrizione elettorale,ma di tanto in tanto sbrigava qualche faccenda in tribunale e non era sconosciuto sui gradini delle Tombe. Ho,tuttavia, buone ragioni di ritenere che almeno un individuo - uno che veniva a trovarlo in ufficio - e che lui con grandi arie si ostinava a chiamare suo cliente, altri non fosse se non un esattore che gli stava alle costole, e il presunto titolo di credito, una cambiale. Ma con tutte le sue manchevolezze e i fastidi che mi procurava, Pince-Nez, come il suo compatriota Tacchino, mi era molto utile: scriveva con mano rapida e nitida e, quando gli garbava, non gli mancavano maniere da gentiluomo. E da gentiluomo si vestiva sempre, dando così, incidentalmente, lustro al mio studio. Con Tacchino, invece, dovevo adoperarmi perché non mi facesse sfigurare. I suoi abiti erano spesso unti e puzzavano ; d'estate portava pantaloni larghi e sformati; le giacche erano esecrabili; il cappello, poi, meglio non toccarlo.Ma se il cappello mi era indifferente perché la naturale urbanità e la deferenza da impiegato inglese lo inducevano a toglierselo nell'istante in cui varcava la soglia, la giacca, invece, era tutt'altro affare. Ne ragionai con lui, a proposito dell'argomento giacca, ma senza risultato. La verità era, credo, che un uomo con uno stipendio così modesto non poteva permettersi di esibire simultaneamente una faccia smagliante e una giacca smagliante. Come osservò una volta Pince-Nez,i soldi di Tacchino andavano quasi tutti in inchiostro rosso. Un giorno d'inverno regalai a Tacchino una mia giacca dall'aria molto rispettabile grigia, imbottita, dava un delizioso calduccio e si abbottonava dalle ginocchia su su fino al collo. Pensavo che Tacchino, apprezzando quel favore, avrebbe mitigato la sventatezza e la chiassosità pomeridiane.Macché: credo davvero che l'abbottonarsi in quella giacca morbida che pareva una coperta avesse su di lui un effetto pernicioso - per lo stesso principio che la troppa biada fa male ai cavalli. Infatti proprio come di un cavallo impetuoso e recalcitrante si dice che senta la biada, così Tacchino sentiva la giacca. Lo rendeva insolente. Era un uomo che la prosperità guastava.Sebbene sulle abitudini in cui indulgeva di Tacchino io avessi le mie opinioni personali, nei confronti di Pince-Ne zero davvero convinto che, a prescindere dai suoi difetti, sotto altri punti di vista fosse perlomeno un giovanotto morigerato. Anzi, la natura stessa pareva avergli fatto da oste, e alla nascita gli aveva istillato, da capo a piedi, un temperamento così irritabile, di tipo alcolico, da rendere superflue tutte le successive libagioni. Quando ricordo come,nella quiete immobile del mio ufficio, Pince-Nez a volte si alzava dalla sedia con impazienza e, chinandosi sul tavolo,spalancava le braccia, afferrava l'intera scrivania, la spostava, la sbatacchiava grattando il pavimento con un movimento sinistro, quasi che il tavolo avesse una sua volontà perversa, tesa a ostacolarlo e tormentarlo, capisco chiaramente come per Pince-Nez acqua e cognac fossero del tutto superflui.Per mia fortuna, visto che la causa specifica ne era la cattiva digestione, l'irritabilità e il conseguente nervosismo di Pince-Nez si manifestavano soprattutto al mattino, mentre nel pomeriggio era relativamente tranquillo.Quindi, poiché gli attacchi parossistici di Tacchino maturavano soltanto intorno al mezzogiorno, non dovevo mai vedermela con le loro eccentricità contemporaneamente. Le crisi si alternavano, come le sentinelle nei turni di guardia.Quando era in servizio Pince-Nez, Tacchino era in licenza, e viceversa. In quelle circostanze era una buona intesa naturale. Zenzero, il terzo della lista, era un ragazzotto di circa dodici anni. Il padre, carrettiere, nutriva l'ambizione di vedere, prima di morire, il figlio seduto sul seggio di un tribunale invece che sul sedile di un carro. Ecco perché me lo mandò in ufficio in qualità di studente di legge, fattorino, addetto a pulire e spazzare, al salario di un dollaro alla settimana. Aveva una piccola scrivania per sé, ma non la usava molto. A chi gli ispezionasse il cassetto si parava davanti una collezione di gusci di noce di ogni genere. Per questo ragazzo sveglio, infatti, tutta la nobile scienza del diritto stava in un guscio di noce. Non infima fra le mansioni di Zenzero - e quella che svolgeva con la massima alacrità- era il compito di approvvigionare di dolci e mele Tacchino e Pince-Nez. Copiare documenti legali è proverbialmente un compito arido e secco, ragion per cui i miei due scrivani erano desiderosi di inumidirsi spesso la bocca con mele Spitzenberg che si potevano acquistare in varie bancarelle nei pressi della dogana e della posta. Molto di frequente inoltre mandavano Zenzero a comprare quelle particolari focaccine - piccole, piatte, rotonde, molto speziate - che avevano suggerito quel soprannome. Nelle mattine fredde, mentre il lavoro era torpido, Tacchino ingoiava dozzine di queste focaccine, quasi fossero cialde sottilissime - ne danno addirittura sei o otto per un centesimo - mentre lo scricchiolio della penna si mescolava al rumore della bocca che sgranocchiava quelle focaccine croccanti. Fra i clamorosi sbagli pomeridiani commessi da Tacchino nella sua smania pasticciona ce ne fu uno che per un pelo non mi indusse a licenziarlo: gli capitò di inumidire fra le labbra una cialda allo zenzero e appiccicarla su un'ipoteca a mo' dissigillo. Ma mi intenerì con un inchino di orientale cerimoniosità e con queste parole:«Con rispetto, signore, è stato un gesto generoso rifornirla, a mie spese, di cancelleria».Ora la mia attività originaria - quella di redigere atti notarili, di spulciare sulla regolarità dei titoli, di stendereoscuri documenti di varia natura - ebbe un considerevole incremento dopo che fui nominato all'Alta Corte di Equità.C'era quindi molto lavoro per i copisti. Non soltanto dovevo mettere sotto il torchio gli impiegati già con me, madovevo procurarmi altro aiuto.In risposta a un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane - la portainfatti era aperta, perché era estate. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa,irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomodall'aspetto così singolarmente mite, che - pensavo - forse avrebbe avuto un benefico influsso sull'irrequietezza diTacchino e l'irruenza di Pince-Nez.Avrei dovuto già accennare alle porte pieghevoli di vetro smerigliato che dividevano in due il mio ufficio: dauna parte c'erano i miei scrivani, dall'altra c'ero io. A seconda dell'umore aprivo le porte oppure le chiudevo. Decisi diassegnare a Bartleby un angolo accanto alle porte pieghevoli, ma dalla mia parte, in modo da avere a portata di vocequell'uomo tranquillo, se, per caso; si fosse dovuto sbrigare qualche lavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quellaparte della stanza, accanto a una finestrina laterale che in origine offriva uno scorcio sul retro, affacciandosi su certicortili sporchi e muri di mattoni, ma che allora, a seguito di successive costruzioni, non si affacciava più su nulla,sebbene lasciasse entrare un po' di luce. A meno di tre piedi dai vetri della finestra c'era un muro, e la luce veniva damolto in alto, filtrando tra due alti edifici, quasi piovesse dal pertugio di una cupola. Per rendere ancora piùsoddisfacente la sistemazione, mi procurai un alto paravento verde pieghevole che poteva escludere completamenteBartleby dalla mia vista, pur lasciandolo a portata di voce. Così, in certo modo, convivevano solitudine e compagnia.In un primo tempo Bartleby eseguì una straordinaria mole di lavoro. Quasi fosse ingordo di avere qualcosa dacopiare, pareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c'era pausa per digerirli. Scriveva giorno e notte, copiando allaluce del sole e al lume della candela. Mi avrebbe entusiasmato quella sua dedizione, se fosse stato allegramenteoperoso. Continuava invece a macinare lavoro in silenzio, esangue, con moto meccanico.È, naturalmente, parte essenziale del lavoro dello scrivano accertarsi che la copia sia esatta, parola per parola.Se in un ufficio vi sono due o più scrivani, si assistono a vicenda in questo controllo, uno leggendo la copia, l'altrotenendo l'originale. È una faccenda noiosa, spossante, soporifera. Non faccio fatica a pensare che sarebbe intollerabileper un temperamento sanguigno. Non riesco a immaginare, ad esempio, il focoso poeta Byron lietamente sedutoinsieme a Bartleby a controllare un atto legale di, diciamo, cinquecento pagine, scritte con grafia fitta e raggrinzita. Di tanto in tanto, se c'era fretta, avevo l'abitudine di aiutare a confrontare qualche breve documento, chiamandoallo scopo Tacchino o Pince-Nez. Uno dei motivi per mettere Bartleby così a portata di mano dietro il paravento erastato quello di disporre dei suoi servigi in lavoretti del genere. Era con me, credo, da tre giorni - non c'era stata ancora lanecessità di esaminare le sue copie - quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in biancochiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testachina sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modoche, emergendo dal suo cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo indugio.In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui,cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senzamuoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: «Preferirei di no».Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà attonite.Subito mi venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannato, oppure che Bartleby avesse completamente fraintesoquello che volevo. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse larisposta di prima: «Preferirei di no».«Preferirei di no!», ripetei in un'eco, alzandomi di furia e attraversando la stanza d'un balzo. «Come sarebbe adire? Le ha dato di volta il cervello? Su, mi aiuti a controllare questo foglio con l'originale - prenda», e glielo buttai.«Preferirei di no», disse.Lo fissai con aria risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli. Nonuna grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, diimpertinenza, in altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei cacciato con brutalità dalmio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gessodi Cicerone. Restai a fissarlo per qualche tempo, mentre continuava a scrivere, quindi mi rimisi alla scrivania. «È benstrano», pensai. «Che fare?». Ma il lavoro incalzava: conclusi di dimenticare intanto la faccenda riservandola a unattimo di calma in futuro Chiamai quindi Pince-Nez che venne dall'altra stanza, e rapidamente controllammo ildocumento.Alcuni giorni più tardi Bartleby terminò quattro lunghi atti, altrettante copie di una settimana di testimonianzeprestate davanti a me nell'Alta Corte di Equità. Si rese necessario controllarli. Si trattava di una causa importante cheimponeva la massima accuratezza. Sistemato tutto, chiamai Tacchino, Pince-Nez, Zenzero, che erano nella stanzaattigua, con l'intenzione di dare a ciascuno dei miei quattro impiegati una copia del documento, mentre io avrei lettol'originale.Obbedendo al mio ordine, Tacchino, Pince-Nez, Zenzero si erano seduti in fila, l'uno accanto all'altro, ciascunocon la sua copia in mano, quando chiamai Bartleby a raggiungere questo interessante gruppetto.«Bartleby! Si sbrighi, aspetto».Percepii il lento stridio delle gambe della sedia contro il pavimento nudo, e subito dopo apparve in piediall'imbocco del suo eremo.«Che cosa le serve?», chiese mite.«Le copie, le copie», risposi in fretta. «Stiamo per confrontarle. Ecco...», e gli porsi il quarto esemplare.«Preferirei di no», disse e lievemente scomparve dietro il paravento.Rimasi di sale per qualche istante, lì, in piedi, alla testa della colonna degli impiegati seduti. Riavendomi,avanzai verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tanto inconsueta.«Perché rifiuta?»«Preferirei di no».Con chiunque altro sarei esploso, e, senza sprecare altro fiato, l'avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto.Ma c'era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo curioso, mi toccava esconcertava. Cominciai a ragionare con lui.«Sono le sue copie che ci accingiamo a controllare. Le risparmia fatica, perché un unico controllo serve pertutte e quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare le loro copie. Non è così? Non intende dire niente?Risponda!»«Preferisco di no», rispose con voce flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse conattenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non potesse confutare l'ineluttabile conclusione,ma che, nello stesso tempo, una qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo.«Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia richiesta, una richiesta conforme all'uso comune e al comunebuon senso?»Mi fece brevemente capire che su quel punto la mia valutazione era corretta. Sì, la sua decisione erairrevocabile.Non è infrequente che un uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a dubitaredelle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a congetturare in modo vago che, per quanto strano, laragione e il diritto stiano forse dall'altra parte. Di conseguenza, se sono presenti persone neutrali, si rivolge a costoro incerca di un sostegno per la mente che vacilla.«Tacchino», dissi, «che ne pensa? Non ho ragione?»«Con rispetto, signore», rispose Tacchino nel suo tono più blando, «penso di sì».«Pince-Nez, che cosa se ne pensa lei?» Penso che lo butterei fuori a calci».(Il lettore attento e sensibile intuirà che, essendo mattina, la risposta di Tacchino è formulata con espressionicortesi e pacate, ma che Pince-Nez replica con malumore. Ovvero, per ripetere una frase detta in precedenza, il cattivoumore di Pince-Nez era in servizio, mentre quello di Tacchino era in licenza.)«Zenzero», dissi desideroso di raccogliere il consenso anche più insignificante, «che cosa ne pensi tu?»«Penso, signore, che sia un po' sfasato», rispose Zenzero con un sogghigno.«Ha sentito quello che dicono», chiesi volgendomi verso il paravento. «Su, venga qui e faccia il suo dovere».Non si degnò di rispondere. Rimasi a ponderare per un attimo, risentito e perplesso, ma ancora una volta,incalzato dal lavoro, decisi di rimandare a un momento di calma la valutazione del dilemma. Con qualche difficoltàriuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di controllo, sebbene, ogni una o due pagine, Tacchino con deferenzaesprimesse l'opinione che si trattava di procedura assai inconsueta, mentre Pince-Nez, agitandosi sulla sedia connervosismo dispeptico, digrignava a denti stretti e sibilava di tanto in tanto improperi contro il cocciuto idiota dietro ilparavento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l'ultima volta che avrebbe fatto il lavoro di un altro senzaessere pagato.Bartleby, nel frattempo, se ne stava nel suo eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé.Trascorsero alcuni giorni che videro lo scrivano impegnato in un altro lunghissimo lavoro. La stranezza del suocomportamento da un po' di tempo a quella parte mi portò a osservare da vicino i suoi modi. Notai che non andava maia pranzo, anzi che non andava mai da nessuna parte. Per quanto ne sapessi, non mi risaltava che fosse mai uscitodall'ufficio: eterna sentinella nel suo angolo. Osservai che verso le undici del mattino Zenzero avanzava verso ilpertugio nel paravento di Bartleby, quasi fosse stato convocato da un cenno invisibile da dove ero seduto io. Il ragazzoallora usciva, facendo tintinnare qualche moneta, e riappariva con una manciata di focaccine che depositava nell'eremo,ricevendo due dolcetti per il fastidio.«Vive di focaccine, allora», pensai. «Non fa mai un vero e proprio pranzo; sarà vegetariano. Macché, nonmangia mai verdure, mangia soltanto focaccine allo zenzero». Cominciai allora a rincorrere con il pensiero fantasie suipresumibili effetti che avrebbe potuto produrre sull'organismo umano un nutrimento esclusivamente a base di focaccineallo zenzero. Si chiamano così perché uno dei principali ingredienti, e quello che dà il sapore, è lo zenzero. Ora checos'è lo zenzero? Una cosa piccante, speziata. Bartleby era piccante e speziato? Nient'affatto. Lo zenzero quindi nonaveva alcun effetto su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non ne avesse.Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Se l'individuo cui si resiste non è ditemperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella sua passività, allora, il primo, quando è di buonumore, si sforza, nella sua immaginazione, di capire con la carità quanto si dimostra impossibile da spiegare con laragione. Così, per lo più, consideravo Bartleby e le sue maniere. «Poveraccio», pensavo. «Non ha intenzioni malvagie; èchiaro che non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che le sue eccentricità - sono involontarie; Mi è utile.Riesco ad andarci d'accordo. Se lo mando via, è probabile che capiti con un principale meno indulgente; sarà trattatomale, rischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco che, a basso prezzo, posso crogiolarmi nell'autocompiacimento.Mostrarmi amico di Bartleby, assecondarlo nella sua ostinazione mi costerà poco o niente, mentre io accumulonell'animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce bocconcino per la mia coscienza». Ma non sempre ero di questoumore. La passività di Bartleby a volte mi irritava. Mi sentivo stranamente pungolato a venire ai ferri corti con lui in unnuovo contrasto - a far scattare una qualche scintilla di rabbia che rispondesse alla mia. Ma tanto valeva che cercassi diaccendere il fuoco strofinando le nocche contro un pezzo di sapone Windsor. Ma un pomeriggio in me prevalsel'impulso malvagio, e ne seguì questa breve scena:«Bartleby», dissi, «quando quei documenti saranno stati copiati tutti, li confronterò insieme a lei».«Preferirei di no».«Come? Non vorrà incaponirsi in quel suo ostinato capriccio?».Nessuna risposta.Spalancando le porte pieghevoli lì vicino, esclamai, rivolto a Tacchino e Pince-Nez:«Bartleby, per la seconda volta, dichiara di non voler esminare le sue copie. Che ne pensa, Tacchino?».Era di pomeriggio, ricordatevene. Tacchino se ne stava seduto irradiando luce e calore come una pentola dirame; la testa calva fumava; le mani turbinavano fra le carte macchiate.«Che ne penso?», ruggi Tacchino. «Ecco che cosa penso: vado dietro a quel paravento a fargli due occhineri!».Così dicendo, Tacchino, alzatosi in piedi, assunse una posizione da pugile. Stava per slanciarsi a mantenere lapromessa, quando lo trattenni, allarmato per aver incautamente suscitato la sua combattività postprandiale.«Si sieda, Tacchino», dissi, «e ascolti quello che ha da dire Pince-Nez. Che ne pensa, Pince-Nez? Non avreibuone ragioni per licenziare Bartleby su due piedi?»«Con sua licenza, signore, è lei che deve decidere. Ritengo che la sua condotta sia assai inconsueta e, invero,ingiusta nei confronti miei e di Tacchino. Ma forse si tratta di un capriccio momentaneo».«Ah!», esclamai. «Strano, lei ha cambiato idea allora... ne parla con molta indulgenza».«Tutto merito della birra», intervenne Tacchino. «La comprensione è effetto della birra... io e Pince-Nezabbiamo pranzato insieme oggi. Guardi quanto sono comprensivo io, signore. Devo andare a fargli due occhi neri?»«A Bartleby, immagino. No, non oggi, Tacchino», risposi. «Giù quei pugni, la prego».

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Bartleby-Lo Scrivano
ClassicsBartleby lo scrivano: una storia di Wall Street (titolo originale Bartleby the Scrivener) è un racconto di Herman Melville