Io e Maryam avevamo fatto un patto: una telefonata rituale, l'avrei chiamata tutte le domeniche. Non potevo abbracciarla ma la sua risata spensierata mi rassicurava. Mi chiedeva di raccontarle dei miei amici, della scuola, dei professori, dei vestiti che compravo. Lei mi raccontava gli ultimi pettegolezzi.
Ogni domenica pomeriggio tornavo a Damasco.
Ma quella domenica Maryam non rispose, rispose la madre con una voce rotta. La salutai in modo educato e poi chiesi di Maryam, ma come risposta ebbi solo dei singhiozzi, non domandai niente.
La mia mano non riuscì più a reggere quel Samsung che papà mi aveva comprato da poco. Quando lo riaccolsi vidi che era spento e un po', con lui, mi ero spenta anche io.
Lo riaccesi con le mani tremanti e richiamai la zia Feyruz. In lacrime mi spiegò che la domenica precedente dopo la nostra telefonata, mentre andava a portare il pranzo al signore Alì, Maryam venne sorpresa da una pallottola che la colpì sulla fronte.
Io la ascoltavo in lacrime, ma in silenzio. Andavamo sempre insieme a portare il pranzo ad Alì.
Alì era il proprietario della drogheria del quartiere, la moglie lo aveva lasciato senza qualcuno che si prendesse cura di lui e del suo stomaco, perciò zia Feyruz lo viziava.
Mi manca Maryam, mi manca Damasco.
Ma non voglio che la nostalgia e il dolore non mi permettano di vivere felice in un altro paese che non è il mio ma che lo sta diventando.
Mi trovo bene in Italia; non ho avuto difficoltà a imparare la lingua e non ho avuto difficoltà a socializzare.
Mamma e papà dicono che è per via del mio carattere, sono testarda e molto determinata dicono.
Ho imparato l'italiano non solo a scuola, ma anche leggendo libri, ascoltando canzoni italiane e guardando film. Mamma invece fa ancora fatica a parlare l'italiano, forse perché ha poche amiche italiane.
Cerca di circondarsi solo di siriane, per sentirsi ancora un po' a Damasco, per sentire l'odore degli ulivi, per sentirsi a casa.
Mamma è molto nostalgica e le manca molto la nonna. Ha 41 anni e piange tutte le sere. Mi ha insegnato che si piange ad ogni età, si soffre ad ogni età, si ha paura come a 4 anni, anche a 17, a 25, a 42, a 80.
Io stavo bene, e per questo mi sentivo un po' egoista. Quando stiamo bene ci dimentichiamo degli altri, e io non volevo dimenticare quello che stava succedendo in Siria.
A Milano, in stazione centrale, incontri tanti siriani.
Occhi gialli grano su una pelle scura, stanca. I loro occhi brillano al sole, ma quando vedono me e la mamma quegli occhi sembrano brillare un po' di più.
Avevamo deciso di portare loro il tè e dolci siriani ogni venerdì pomeriggio.
Ci eravamo molto affezionate a una famiglia in particolare, mamma parlava con la donna, io giocavo con la bambina.
Quella bambina magra e adorabile con un vestitino azzurro che tenevo in braccio sperando di togliere un peso alla madre, un peso che sapevo non essere quella bambina.
Ogni volta, prima di andarmene la piccola mi seguiva fino alle scale "torni anche venerdì prossimo?".
E ogni volta mi convincevo che quegli occhi di un colore pagliettato d'oro non potessero farsi vittima della sofferenza perché brillavano sempre di speranza.
Speranza, in arabo Amal.
Il mio nome è Amal, ma chiamatemi Speranza.
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Chiamatemi Speranza
General FictionStoria per il concorso "La scrittura non va in esilio" Tema: immigrazione