Ultimo giorno a Damasco

20 1 0
                                    

Io e Maryam andavamo spesso ad ammirare il cielo stellato in terrazza. Ci raccontavamo i nostri sogni e i nostri segreti più preziosi sotto quel cielo. Le stelle erano gli scrigni silenziosi dei nostri segreti.

Ma oggi, oggi non c'erano stelle.

Forse perché erano coperte dalle nuvole.

O forse è così:il numero di stelle visibili è direttamente proporzionale alla felicità di chi le osserva.

La mia felicità era in Siria e io me ne stavo andando, lasciando la mia Siria senza stelle in mano alle bombe.

Erano mesi che papà insisteva per farci venire in Italia, per cominciare una nuova vita, una vita tranquilla che ci era stata rubata.

Papà lavorava in Italia già da dieci anni ma noi non avremmo mai pensato di doverlo raggiungere lì, se non per le vacanze estive.

Anzi, lui stesso pensava di lavorare ancora un paio di anni a Milano per poi tornare a vivere a Damasco.

Ma si sa, la guerra non perdona, arriva quando meno te lo aspetti e scompiglia tutti i piani, tutti i sogni.

L'ultima settimana non la dimenticherò mai:il quartiere ridotto in macerie, i sequestri, le fughe, le occupazioni.

I morti e i feriti.

Le bombe, gli spari.

Gli uomini di Assad quella settimana avevano ucciso decine e decine di uomini, di donne, di bambini e di anziani.

Non guardavano in faccia a nessuno;eliminavano chiunque fosse in grado di respirare.

Avevamo smesso di andare a scuola, la mamma non andava più a fare compere al mercato.

Le strade erano occupate dai soldati.

Le strade cominciavano a fare paura anche di giorno.

Che ironia!

Si chiamano forze dell'ordine e l'unica cosa che fanno è creare disordine.

Papà dall'Italia ci chiamava tutte le sere per assicurarsi che fossimo ancora vivi e per convincerci a lasciare il paese al più presto possibile.

Mamma non voleva lasciare Damasco clandestinamente perché aveva paura che la nostra vita e la nostra libertà fossero messe in pericolo perciò aspettammo il rilascio del visto.

In Siria, a causa della guerra, furono chiuse tutte le ambasciate e furono trasferite in Libano e in Turchia.

Avevamo richiesto il visto per l'Italia al consolato di Beirut e quel giorno alla mamma, che aveva perso le speranze, si illuminò il viso.

L'impiegato allo sportello le disse con un sorriso:" Signora Ruba, siete molto fortunati. Lo Stato italiano ha da poco rilasciato un decreto che facilita le procedure per il ricongiungimento familiare negli stati in guerra. Potrete ritirare i vostri documenti tra un mese, il 4 gennaio."

Papà prenotò il volo per il 6 gennaio, per non perdere tempo diceva.

Quel mese passò in fretta.

Cominciai a vedere tutto con occhi diversi; la mattina non stavo a letto prima di alzarmi come ero abituata a fare. Volevo godermi istante per istante quel mese che mancava, l'ultimo mese che avrei passato nella mia amata Damasco.

Non sapevo se sarei tornata o no, e ancora adesso non lo so.

Non mi ero mai accorta della bellezza di Damasco; il fiume Barada le dava un non so che di fiabesco, al tramonto l'acqua luccicava e forse era per questo che i greci lo avevano chiamato "fiume d'oro".

In ogni angolo della città, quando non si sentiva l'odore della polvere da sparo, si poteva sentire il profumo emanato dagli ulivi in lontananza.

Maryam mi invidiava, sognava di andare in Italia. Io invidiavo lei, non avrei mai voluto lasciare la mia Siria.

Avevo cominciato a studiare qualche parola e alcune frasi in italiano.

Una bella lingua l'italiano, bel paese l'Italia, ma io ero ansiosa di conoscere gli italiani.

Ero ansiosa, ma anche curiosa, di conoscere i miei futuri vicini, compagni di scuola e amici.

Oggi ho abbracciato Maryam come chi parte e sa di non poter tornare, l'ho abbracciata sperando che non fosse l'ultima volta che l'avrei fatto.

Le promisi che mi sarei fatta sentire spesso, che avremmo cercato di accorciare le distanze, che saremmo rimaste amiche. Amiche nonostante la distanza, amiche nonostante la guerra.

Era tutto pronto per il viaggio, salutai la mia famiglia e i vicini e salii in macchina. Avevo trattenuto le lacrime fino a quel momento, ma quando lo zio mise in moto la macchina mi lasciai andare.

"Addio" mormorai mentre guardavo il cielo nero dal finestrino.


Chiamatemi SperanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora