Quando ero piccolo abitavo alle baracche sul fiume. All'inizio eravamo in quattro: io, mio padre, mia madre e mio fratello Massimiliano. Gli avevano dato questo nome lungo e difficile e io non riuscivo mai a pronunciarlo tutto.
Il posto dove vivevamo, i grandi lo chiamavano il campo. Per me era solo casa. Un largo spiazzo di terra battuta che d'estate s'infuocava e d'inverno seccava al gelo. Quando pioveva, poi, il livello del fiume saliva fin quasi a toccare la nostra baracca e lo spiazzo diventava un pantano, col fango che ci entrava dalla porta e se non ti sbrigavi a spianarlo poi ti ritrovavi il pavimento a bozzi irregolari che a camminarci sopra ti facevano male i piedi.
Al campo c'erano un paio di roulotte dove stava una famiglia di zingari ricchi e quasi trenta baracche, costruite vicinissime, tanto che tra la mia e quella del nostro vicino nemmeno io riuscivo a infilarmi.
La nostra casa era uguale a tutte le altre: un tetto di lamiera ondulata, le pareti spesse di plastica e compensato, una vecchia rete periodica e una tenda cerata a farci da porta.
A parte il gelo che d'inverno ci bruciava i piedi, non si stava male. Quando i miei genitori erano troppo ubriachi per procurarci del cibo, potevo prendere delle verdure crude che avevamo in casa, o chiedere qualcosa da mangiare nelle altre baracche. Al campo bevevano tutti, ma si trovava sempre qualcuno che, forse perché non aveva soldi per comprarsi l'alcol, avevano bevuto meno degli altri e si reggeva abbastanza in piedi da poterti aiutare. Non c'erano né docce né bagni né acqua corrente,ma io non ne sentivo la mancanza. Non avevo quasi mai visto un cesso e nell'unica vasca del bagno del campo gli zingari c'avevano ricavato un piccolo orto. Così, d'inverno per lavarci mia madre ci sfregava addosso dei panni bagnati e d'estate invece ci immergevamo nelle pozze stagnanti del fiume. Erano sporche e piene di girini e oltretutto ci pisciavamo dentro, ma non ci importava niente. Eravamo abituati. C'erano anche delle cose brutte, di quelle che faticavi a farti andar bene.
Per esempio, non avevamo la televisione. Ce n'era una sola, una TV a pile, ma stava nella baracca di un'altra famiglia e non sempre ci invitavano a guardarla. C'era mio padre che si ubriacava e ci menava tutti, e a me non mi piaceva tanto, anche se era normale: tutti i padri quando si ubriacavano menavano la moglie e i figli. Era una cosa di tutti i giorni, ma non mi piaceva lo stesso.
A noi piccoli toccavano solo le cinghiate e gli schiaffi, ma mia madre non era altrettanto fortunata. A lei toccavano anche i calci e i pugni e quelli facevano male sul serio, anche se all'epoca non lo sapevo, lo avrei scoperto qualche anno più tardi.
Ma la cosa peggiore peggiore era che qualche volta al campo venivano persone di fuori.
Arrivavano in macchina con delle valigette piene di fogli. A prima vista sembravano persone normali come noi, ma non bisognava farsi fregare, lo vedevi dalle scarpe che erano diversi. Loro ce le avevano sempre nuove e pulite. Era gente pericolosa, quella. Gente cattiva.
Si facevano chiamare "assistenti sociali". Venivano al campo, entravano nelle baracche senza essere invitati e toccavano le nostre cose. Facevano un sacco di domande strane. Mi chiedevano se mangiavamo tutti i giorni, se mi facevo la doccia, se per caso ogni tanto dormivo sul letto di qualche zio adulto.
Non li capivo.
A volte minacciavano di prendere noi bambini, di darci in adozione.
Quando venivano a casa mia chiedevano a mia madre se aveva bevuto. Lei diceva sempre di no, anche se già alle otto del mattino il suo fiato puzzava di vino e faticava a reggersi i piedi. Quelli non facevano neanche più finta di crederle. Le dicevano che doveva portarci via dalle baracche, doveva lavarci e metterci le scarpe e mandarci a scuola. E dicevano pure che mio padre non ci doveva menare. Lo dicevano alla mamma però, mica a mio padre.
Di lui avevano paura.
Ogni volta che venivano, mia madre prometteva che ci avrebbe mandato a scuola e ci avrebbe comprato dei vestiti, e sì, anche le scarpe, ma appena quelli si giravano per andarsene li insultava. Diceva che sapevano solo chiacchierare e promettere ma quando si trattava di aiutate davvero non sganciavano mai una lira.
Borbottava e minacciava, poi però faceva come dicevano loro, ci prendeva dei vestiti quasi nuovi e delle scarpe quasi nuove e a volte anche del numero giusto.
E, per qualche giorno, ci mandava a scuola. Ma per fortuna durava poco.
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Alfredo
Chick-Lit"In piedi sulle scale c'era una bambina. Avrà avuto la mia età, un caschetto di capelli neri e un po' ispidi. Piangeva a bocca aperta, disperata, le mancavano tutti e due i denti davanti, proprio come a me. La guardai cercando di capire perché pian...