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Scendo dal Taxi senza aspettare il resto e mi fiondo verso l'ingresso dello stabile che mi trovo di fronte: un palazzo grigio e triste, che sembra quasi una vecchia fabbrica del dopoguerra. Non che io sia un tipo impressionabile o abbia molto tempo per guardarmi intorno visto l'orario, ma l'architettura mi ha sempre affascinata. Arrivo davanti al grande portone di ferro e vetro, spalancato per l'occasione: un uomo in smoking ci sta fermo proprio nel centro e controlla con occhio critico e stanco, distaccato, tutti coloro che si avvicinano alla sua postazione. Pare Cerbero, con la sola differenza che non è un cane, non ha tre teste e io no, non sto proprio cercando di entrare all'inferno. Giungo esattamente all'ingresso di quello che, al contrario, pare il paradiso terrestre.

"Buongiorno, il suo pass?" domanda l'uomo.

Di rimando sorrido, mostrando il mio cartellino rosso, recante la scritta Dresser. Un cenno del capo mi apre le porte al futuro. Percorro il cortile rettangolare completamente sgombro da qualsiasi tipo di arredo e, sul lato opposto rispetto a quello da cui provengo, un foglio bianco appeso al muro sventola al vento fresco di questa mattina di inizio giugno. STAFF, dice. Seguo la freccia che indica verso destra, incamminandomi lungo un corridoio che sfocia in una sala grande quanto una scatola di scarpe. Una ragazza sta seduta su uno sgabello dietro ad un bancone nero e non appena i miei tacchi risuonano sul cemento grezzo che funge da pavimento, i suoi occhi blu si posano sulla mia figura.

"Buongiorno. Come posso aiutarla?" chiede.

"Credevo di esser qui per aiutare voi" rispondo ridendo.

Lei sorride e mi chiede un documento, così le fornisco la mia tessera universitaria.

"Una stagista, bene bene. Spero tu abbia un paio di infradito in quella borsa perché uscirai stravolta da questa giornata, parlo per esperienza. Vieni, ti accompagno alla tua postazione" dice, sorridendo in maniera gentile, alzandosi dalla sua comoda seduta che il suo commento mi sta già facendo invidiare.

Non sono una novellina in questo ambito: ho aiutato per due anni consecutivi ad allestire le sfilate della nostra accademia, a vestire le modelle nel backstage e a rimediare a situazioni scomode quando i capi non vestivano a pennello. Mentre seguo la ragazza, che si presenta come Giulia, su per una scala enorme mi dico che ce la farò anche stavolta e che si tratta solo di una sfilata leggermente più grande, con giusto due spettatori in più e una supervisione poco più severa di quella a cui sono abituata. Arrivata al piano di sopra quasi non mi sembra di essere all'interno dello stabile che ho visto non appena il taxi si fermò all'indirizzo che gli avevo fornito, giunto alla meta. Un soffitto alto e degli archi incorniciano quello che è esattamente il fine della mia carriera universitaria: un pullulante, rumoroso e caotico backstage. L'altro lato del sipario, il lato in ombra della luna, quello che completa l'insieme, il quadro generale, ma non si vede.

                  

A volte, durante i Fashion Show della mia accademia, mi è capitato anche di stare dal lato illuminato, quello che tutti osservano, quello a cui tutti aspirano, ma non è una cosa che fa per me: tenere le spalle rigide eppure dover sembrare rilassata, concentrarsi su un punto fisso per evitare di lasciarsi sfuggire una risata spontanea. Sfilare. Un fine a cui molti anelano, ma da cui io fuggo. Ho sempre amato il mondo della moda, mi sembra chiaro, ma in maniera diversa rispetto alle masse: preferisco la fotografia, catturare il momento in cui ogni modella/o splende. Sai, mentre sfilano, c'è un istante, solo uno, in cui i loro occhi non sembrano quelli di un robot, e io voglio essere in grado di catturare quel momento, quella luce, sempre. Cosa che non sono in grado di fare stando dietro le quinte ma, per lo meno, il mio lavoro da Dresser può aiutare chi sta effettivamente vivendo il mio sogno a scattare delle fotografie all'altezza di riviste importanti, che io posso solo permettermi di acquistare in edicola.

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