Eravamo qualcosa di magnifico

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Oh, Maria.
Maria che viene da Venezia, come mi avevi insegnato a dire in italiano.
Mary, come ti chiamavo a volte per soddisfare il mio accento.
Mamma, come ti chiamavano i ragazzi.
La signora di Angelo, come ti chiamavano tutti gli altri.
La donna dai mille volti, dalle mille facce, dal sorriso facile e l'anima imperscrutabile.
La donna dagli occhi ammalianti.
Tu, Maria. La mia signorina. Eri bella. Bella come il sole al tramonto, come le stelle del cielo, come tutto ciò che è bello e potente allo stesso tempo. La tua determinazione, la tua espressione risoluta, la tua forza interiore. La tua passione per il caffè e i biscotti dolci ai canditi. La tua paura per l'alta marea. La tua dolcezza materna. Il tuo passo regale e maestoso, da regina. Il tuo grembiule a fiori. Il tuo abito della festa violetto. Il tuo naso all'insù. La tua voce leggera. Il tuo interesse per la musica classica. La tua infinita cultura. La tua calma.
Maria. La mia Afrodite personale.
Ricordo quando ti ho vista la prima volta. Passeggiavo per Venezia. Pioveva. Amavo molto quella città. Aveva una confortante atmosfera di mistero. Ero in un vicolo e osservavo il canale davanti a me incresparsi lentamente per la pioggia. Le gocce facevano un bel rumore, che sembrava dialogare in una lingua sconosciuta.
《 Plick ploick plin plick plick?》
《 Plick tick plock!》
Era molto suggestivo. Le piccole scie d'acqua mi ticchettavano sul viso pallido, bagnandomi i capelli scuri e rendendoli ancora più lisci del loro livello naturale. Sentivo il completo nero che indossavo farsi più pesante a ogni goccia che arrivava a bagnarlo.
Plick. Plick. Plick.
Una particella d'acqua scintillante mi scivolava piano giù dal cappello. Me lo tolsi. Era cosparso di piccoli diamanti acquatici. Cominciai a schiacciarli con il dito, uno a uno.
Proprio allora sentii un respiro affannato a pochi metri da me. Alzai lo sguardo.
Una giovane donna vestita di lilla si era appena appoggiata al muro, accanto a me, riparato da una veranda. Era bellissima, seppur fradicia e ansimante, probabilmente per una corsa alla ricerca di un riparo. I bei capelli scuri e ricci erano acconciati in uno chignon alto, coperto da un cappellino bianco. L'abito lilla era così bagnato che la donna doveva far fatica a camminarci.
- Mi scusi, ha mica visto passare di qui un uomo alto...biondo...occhi verdi...vestito bene...no, eh? Mi scusi ancora- disse la donna, in inglese (probabilmente aveva notato che gli abiti che indossavo erano all'ultima moda americana) e fece per andarsene. Ma, appesantita dall'abito, scivolò sul pavimento bagnato. Mi chinai per aiutarla a rimettersi in piedi.
- Tutto bene, signorina?- le chiesi. Sembrava una bambolina di porcellana che è stata dimenticata in giardino durante un forte temporale.
- Sì, grazie mille, io...Ahi!- gemette, appoggiando per terra il piede destro.-Penso di essermi slogata la caviglia...-
- Sa, forse non è molto prudente andare in giro con i tacchi quando piove- arrossii, tenendole il braccio e cincischiandomi la giacca fradicia. Ero imbarazzato. Quella donna mi ricordava le regine di Atene: belle ma forti.
- Ero a un pranzo insieme al mio fidanzato...poi lui è uscito a prendere una boccata d'aria e non è tornato indietro. È proprio sicuro di non averlo visto passare di qui?- mi chiese speranzosa. All'improvviso cominciai a sperare di trovarlo, per poterlo mandare nei Campi della Pena.
- Sicurissimo- risposi rigido. - Ehm...dove deve andare, signorina?-
- Oh, la guido io, tranquillo- rispose lei, e cominciò a camminare zoppicando, appoggiandosi al mio braccio. Iniziò a piovere molto più forte. Lo scroscio della pioggia copriva ogni altro rumore, e mi venne da pensare che Zeus mi volesse veramente rovinare la vita sentimentale.
- Ehm...e se ci mettessimo in un locale ad aspettare che la pioggia diminuisca?- le proposi, maledicendo mentalmente Zeus e la sua passione per rovinarmi l'esistenza.
- Forse è il caso...- disse lei, incespicando sulla caviglia ferita.
Entrammo in un grande caffè pieno di gente. C'era un buon profumo di biscotti e di cioccolata calda. La luce dorata veniva da un grande e sontuoso lampadario. Non era il mio stile, ma l'insieme era abbastanza gradevole.
- Ordiniamo qualcosa?- disse allegramente la donna.
- Va bene- risposi, continuando a cincischiarmi la giacca fradicia.
- Dimenticavo, mi chiamo Maria di Angelo. Mi chiami pure Maria. E lei si chiama...?-
- Ehm...Hades Hell.- risposi, sparando uno pseudonimo a caso.- Ma se le torna meglio, mi chiami pure Ade.-
- Ade...come il dio degli Inferi nella mitologia greca?-
Annuii. Insomma, io ero Ade.
- Che bello! È il mio dio preferito- disse allegramente Maria, pagando un caffè. - Insomma, ho studiato tutta la mitologia greca. È molto affascinante. Trovo che Ade sia il dio più sfortunato. È il primogenito maschio di Crono e Rea, e Zeus, il più piccolo, gli ruba il trono. Poi sorteggiano il mondo su cui regnerà, e gli toccano gli Inferi. Si innamora, e per sposare la ragazza che ama la deve rapire, attirando a sé le ire di metà Olimpo. Poverino...- concluse Maria, mescolando il caffè con il cucchiaino.
Direi che ne sapevo qualcosa, di ciò che aveva raccontato, visto che avevo vissuto tutto in prima persona.
- Ehm...già. Povero m...cioè, Ade.-
Maria rimase zitta. Guardava, come persa nel vuoto, la porta del bar. Io invece fissavo il suo viso. Ormai lo avevo capito: provavo qualcosa per quella donna. Meno male che Persefone se ne fregava altamente di ciò che facevo e con chi passavo le mie giornate. Maria si stava arrotolando una ciocca di capelli scuri sul dito. Quel gesto mi sembrava il massimo della grazia. Quando si dice colpo di fulmine...
- Oh, guarda- disse, dopo dieci minuti buoni di quell'imbarazzante e prolungato silenzio- ha smesso di piovere.-
Guardai dalla finestra. Il cielo era tornato di un tenue azzurro. La accompagnai fuori dal locale.
- Maria, ha bisogno di aiuto per la caviglia?- chiesi. Lei si voltò. Alla luce del sole sembrava una dea. E so di cosa parlo. Era troppo bella per essere vera, semplicemente.
- No, grazie. Penso di...OW!- Maria cadde...un'altra volta. Stavolta la afferrai al volo. Mi ritrovai con la mia piccola bambola di porcellana tra le braccia. Quella bella regina di Atene degli anni '40 era così fragile. Maria sorrise e, facendo leva sulle mie spalle, si tirò su con la leggerezza di una bambina. Era vicinissima a me. Volevo scappare. Ma volevo anche restare lì a guardare gli occhi scuri di Maria fino alla fine dei tempi.
Fallo, disse una vocina dentro la mia testa. Fallo e basta. Sentivo uno strano sentimento simile all'ansia salirmi dentro. Maria rimaneva ferma, con un sorriso dolce sulle labbra, meno di cinque centimetri a separarci.
Fallo! Subito! ordinò la voce.
Alla fine l'iniziativa la prese Maria.
Semplicemente, mi buttò le braccia al collo e mi baciò. Sapeva di cioccolato. Era bello. Bellissimo.
- E il tuo fidanzato?- le chiesi, staccandomi leggermente. Lei rise.
- Oh, quel tipo? Preferisco uno sconosciuto che mi porta in un bar durante un acquazzone a un fidanzato che mi molla per farsi una passeggiata- disse sorridendo. La gente ci scivolava accanto. Un tipo abbronzato dalla faccia simpatica ci urlò qualcosa in italiano. Anni dopo, Maria, ti chiesi cosa aveva detto. Tu dicesti, sorridendo:- Ha detto "L'amor che move il sole e l'altre stelle". È un famoso verso tratto da un bel libro.-

Maria, tu eri questa. Dolce, impulsiva, felice. Peccato che io rovinassi tutto. Tu, io, il mondo. Cosa mancava? La normalità. Se fossi stato un normale mortale... Ora saremmo felici. Con la nostra bella Bianca, ormai grande, e il piccolo Nico con la sua fissa per quel gioco di carte...Mitomagia? Sì, Mitomagia.
Ma noi eravamo speciali.
Proprio per questo eravamo così...magnifici. Sì, è la parola giusta.
Eravamo qualcosa di magnifico. Un temporale distruttivo, una forza ribelle, una risata in un cimitero.
Maria. Mi manchi.
Oh, Maria.
La mia magnifica Maria.


(So che il primo incontro di Ade e Maria è a Washington. Prendete l'ambientazione a Venezia come una licenza poetica)

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