...and let me die

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"This is thy sheath;
there rest,
and let me die"

Era calato il silenzio.
La battaglia era terminata, i guerrieri sopravvissuti stavano rientrando nelle proprie case lasciando dietro di sé un fiume di sabbia e sangue, di cadaveri e avvoltoi.
Il deserto pareva avere un colore diverso, quasi la natura - padrona incontrastata di quei luoghi - si ribellasse alla cruenta guerra che aveva spezzato la calma e distorto i suoi equilibri.
Non si comprende, il deserto. Lo si ammira, lo si teme, lo si venera, ma i suoi misteri protetti dalla sabbia cotta dal sole sono impenetrabili a qualunque essere umano.
La donna lo guardava attraverso le sottili tende rosse della finestra, sulla torre più alta della fortezza di pietra che era la sua casa, percependolo scorrere nelle proprie vene, in un senso d'appartenenza che solo a chi vi è nato è dato provare.
Si sentiva stanca, proprio come il deserto. Stanca di quella guerra che durava ormai da dieci anni, stanca delle urla dei moribondi, delle lacrime delle donne, del clangore delle spade.
Da dieci anni la sua vita si svolgeva secondo gli stessi invariati ritmi, le stesse devastanti azioni: il cibo al popolo, le medicine ai malati, le sepolture ai caduti.
Cristallizzata.
Era stata una bambina felice, ma non ricordava molto di quel tempo; sua madre era morta dandola alla luce, ma suo padre, il signore del palazzo, l'aveva ricoperta di così tante attenzioni che la nostalgia la visitava solo di tanto in tanto.
Quando succedeva, quando la mancanza di una madre mai conosciuta diveniva troppo ingombrante, saliva sul punto più alto del castello e lì, avvolta dal nulla, ascoltava la voce del deserto, fatta di flebili sussurri e di canzoni melodiose che la sabbia portava con sé.
Poi l'inferno era penetrato in quel luogo ameno e la sua fanciullezza era finita di colpo.
Aveva quindici anni e una mente piena di speranze e desideri.
Non era rimasto più nulla, né l'innocenza di quell'età, né i sogni.
La guerra aveva spazzato via tutto.

Tranne lui.

Non avrebbe saputo dire quando l'amore era iniziato; per quello che poteva ricordare Ashraf era sempre stato presente nella sua vita, prima come il ragazzo più grande che le portava di nascosto le pesche dal mercato, guardandola divertito mentre si sporcava la bocca e le mani, poi come l'amico speciale con cui contemplare le stelle nelle notti d'estate o perdersi tra le dune in groppa ai cammelli.
Quando la guerra aveva sconvolto le loro vite, portando lui, il pupillo del sultano, alla guida dell'esercito e lei, la principessa, a cercare di combattere la morte e la fame giorno dopo giorno o, almeno, a portare il balsamo del conforto e delle preghiere, Ashraf e Zahira avevano trovato l'uno nell'altra il porto sicuro in cui rifugiarsi quando il peplo cupo della notte li avvolgeva.
L'amore, che fino a quel momento non era stato che un sentimento troppo grande per poter essere confessato, era divenuto l'unico motivo per andare avanti.
Per dieci anni nell'istante in cui l'aria diveniva satura del suono dei corni della ritirata, la principessa abbandonava qualsiasi occupazione per tornare nelle proprie stanze e prepararsi ad accoglierlo. Per dieci anni lui aveva combattutto con un solo pensiero in testa: il bisogno di sopravvivere per poter tornare da lei.
Anche quella notte Zahira era tornata in camera, si era lavata, aveva profumato il corpo sottile con gli unguenti, l'aveva avvolto con una leggera veste nera e aveva acconciato i capelli scuri in una morbida treccia; gli occhi verdi risaltavano grazie al nero del kajal e le labbra rosse parevano fragole mature. Aveva compiuto quei gesti senza pensare, rendendosi conto solo alla fine, davanti allo specchio, di come somigliasse ad una vedova.
Colpa del deserto, si era detta, e dei suoi cupi sussurri che le erano penetrati nella pelle.
La vasca al centro della sala era piena d'acqua calda che sarebbe diventata della temperatura perfetta nel tempo che lui avrebbe impiegato per salire fin sulla torre, e sul tavolo frutta e dolci erano in attesa di essere assaggiati dalle sue labbra virili.
Come lei.
Zahira percepiva che qualcosa era diverso, la nenia che il deserto portava fin nelle sue stanze sembrava un canto funebre e il cielo era talmente rosso da parer macchiato di sangue.
Cosa succede, madre?
Il pensiero della notte prima le provocò un brivido lungo tutto il corpo, mentre una devastante consapevolezza si faceva largo dentro di lei.
Il deserto cantava la morte.
E cantava per lei.

Quando Ashraf era finalmente arrivato Zahira gli era corsa incontro, aiutandolo a liberarsi della pesante armatura e delle vesti macchiate di sangue prima di farlo immergere nelle acque profumate.
Il guerriero aveva lasciato che quelle mani sottili lo lavassero, sentendo scivolare via poco a poco la terra, il sangue, il dolore. Tra le mani della sua donna ogni orrore spariva e il suo cuore si apriva all'amore e alla vita che solo lei poteva restituirgli.
Era nato per combattere, era stato addestrato per quello e quando il sultano l'aveva onorato con la più alta carica militare si era sentito alla fine di un lungo viaggio programmato per portarlo esattamente lì, dov'era.
Ma la guerra... Nessuno è preparato alla guerra.
Non esiste maestro che ti prepari al momento in cui la vita abbandonerà lo sguardo di un uomo che tu hai ucciso, né alla totale irrazionalità dei momenti che sembrano persi, quando la lotta per la sopravvivenza rende gli uomini simili alle bestie.
La morte di un uomo per la propria vita.
L'umanità poco a poco abbandona i guerrieri, in molti si perdono lungo sentieri tinti di odio e di sangue e solo alcuni riescono a non impazzire.
Ashraf era tra questi e il merito era solo di Zahira, a cui aveva promesso di fare ritorno ogni notte.
Era un uomo di parola, il primo tra i guerrieri, e non sarebbe mai venuto meno proprio a quella promessa.
Quando l'acqua era ormai rossa l'aveva fatto uscire e gli aveva asciugato il corpo con panni di lino; l'eccitazione, sfacciata, era stata come sempre impossibile da nascondere ma né Ashraf né Zahira se ne vergognavano.
L'atto d'amore, che tutti avevano dipinto come qualcosa di sporco e dovuto, o violento ed egoistico, era per loro la sublimazione di quell'amore per cui respiravano e vivevano giorno dopo giorno, il momento in cui due spiriti e due corpi si univano per formarne uno solo.
Anche quella notte Zahira l'aveva condotto ancora nudo a tavola e l'aveva imboccato con amore e dedizione, poggiandogli di tanto in tanto la mano sul petto segnato dalle cicatrici per poter sentire il cuore palpitare. Per poter comprendere che ancora una volta lui era tornato da lei. Vivo.
La passione esplose all'improvviso, senza dar loro neppure il tempo di prepararsi e arrivare a letto; il bisogno di perdersi l'uno nell'altra, la necessità di ritrovare in quella piccola morte la vita... Non c'era più tempo per i tentennamenti.
Ashraf l'aveva presa in braccio e l'aveva gettata tra le cortine pregiate, strappandole il vestito di dosso; Zahira aveva sussultato davanti a tanta violenza, ma si era fidata, come sempre aveva fatto.
Pensava che l'avrebbe fatta sua subito, tanta era l'urgenza che gli leggeva negli occhi, ma Ashraf tentennò, percorrendo con lo sguardo il suo corpo nudo lentamente, senza fretta, quasi volesse memorizzarne ogni minimo particolare. Quando i suoi occhi neri tornarono a specchiarsi in quelli di lei, le due mani iniziarono a percorrere l'intera lunghezza delle sue gambe fino al punto più celato, che solo lui conosceva.
Era bella Zahira, riversa sui cuscini con i capelli in disordine e le gote arrossate.
Era bella nella sua fede senza remore, nell'amore incondizionato che leggeva in quegli occhi verdi.
Era bella ed era sua.
Quel pensierò graffiò il suo orgoglio spingendolo ad allargarle le gambe.
Zahira sgranò gli occhi sorpresa, ma non si oppose.
Quella donna era tutto per lui. Le avrebbe dato tutto.
Le dita di lui iniziarono a muoversi seguento i gemiti e i tremiti del corpo di lei, insinuandosi sempre più in profondità. I suoi occhi non persero di vista neppure per un istante il volto amato, bevendo ogni smorfia, ogni arricciamento di labbra, ogni sguardo liquido che gli lanciava.
Quando comprese che stava per cedere al piacere, tolse la mano.
Un gemito indispettito le sfuggì dalle labbra e Ashraf sorrise.
Le allargò ancora di più le gambe posizionandovisi nel mezzo e, seguendo l'istinto, portò le labbra e la lingua lì dove prima c'era la sua mano, incurante della lieve protesta della fanciulla.
Protesta che morì rapida com'era nata...
Il respiro mozzo lo fece fermare, ancora una volta un istante prima.
E ancora una volta lei lo fulminò, ma non ebbe il tempo di parlare.
Quando sentì dentro di sé il suo uomo Zahira perse se stessa... Completamente.
Ashraf rimase fermo in attesa, digrignando i denti per non impazzire, fino a che non fu lei a muoversi.
A quel punto tutto sfumò -la guerra, il deserto-. L'unica cosa reale era il corpo sudato e caldo sotto il suo.
E l'amore.
Infinito totalizzante amore.
Ogni spinta era un bacio.
Ogni spinta era vita rubata alla signora morte che ogni giorno incombeva su di loro.
Ogni spinta era la paura di generare un figlio che sarebbe cresciuto in tempo di guerra e il desiderio straziante di morire nel corpo di lei.
La voce del deserto portava loro canti d'amore e di passione, testimone di quell'atto bruciante che si stava consumando.
In quei momenti Zahira comprendeva come tutti i sacrifici e le lacrime venissero ripagati, perché lui tornava da lei, sempre, e alla fine della guerra l'avrebbe resa sua moglie, sancendo un accordo che i loro cuori avevano sigillato molto tempo prima.
Il piacere la scosse ancora una volta e Ashraf la seguì poco dopo, accasciandosi su di lei e assopendosi immediatamente, provato dalla stanchezza della giornata.
Il sonno, invece, per Zahira tardava ad arrivare, come sempre; rimase immobile con le mani tra i capelli neri del suo uomo e l'orecchio teso verso la finestra, per lasciarsi cullare dalla ninna nanna che la sabbia faceva penetrare attraverso le cortine del letto.

Non si distingueva più nulla al di là delle mura, le luci dell'accampamento nemico non erano che flebili bagliori e cielo e terra sembravano fondersi l'uno nell'altra come facevano gli amanti che si ritrovavano dopo una lunga separazione.
Quando la porta si aprì la principessa comprese che il momento era giunto.
Si voltò lentamente, respirando a fatica: ciò che vide non la sorprese, ma mille aghi acuminati le straziarono il cuore.
Un uomo era inginocchiato a capo chino e le tendeva una spada.
Non aveva bisogno di avvicinarsi per comprendere a chi fosse appartenuta, perché quella spada era stata il suo dono di fidanzamento. Quella lama sporca di sangue era stata la parte del suo cuore che per anni lui aveva portato con sé in battaglia, affinché sapesse che lei non lo abbandonava mai.
Ashraf non sarebbe più tornato da lei.
Si mosse lentamente, con lo sguardo vitreo perso davanti a sé; prese la spada e sorpassò l'uomo diretta alla piazza principale.
Al suo passaggio uomini e donne si inchinavano, colpiti da quella visione che aveva del divino.
La principessa che per lunghi anni era stata la loro forza avanzava calma, con le vesti nere appena mosse dal vento e le dita serrate sulla spada che gocciolava sangue lungo il cammino.
Presagio di morte.
Calò il silenzio, riempito solo dalla nenia lugubre del deserto trasportata dall'aria della sera.
Il corpo di Ashraf era celato dalla sua guardia personale, ma a nulla valsero le suppliche del sultano e dei soldati: davanti a tanta risolutezza si spostarono, permettendole di vedere.
Mai più i suoi occhi avrebbero dimenticato il corpo amato martoriato dalle ferite, la testa piegata in una posizione innaturale, la gola squarciata. Qualcuno aveva abbassato le palpebre, risparmiandole almeno la vista di quegli occhi amati ormai privi di vita.
La spada era diventata pesante e calda e il canto del deserto sembrò penetrarle fin nei più intimi pertugi della sua anima.
E allora Zahira comprese.
Era stata condannata a vivere.
Una vita che non sarebbe più stata vita, perché senza di lui nulla aveva più senso. A cosa sarebbe servito svegliarsi ogni mattina se lui non sarebbe più tornato da lei?
Per chi avrebbe sorriso, danzato, cantato?
Il mondo intero sarebbe stato una terribile collezione di cimeli che in ogni istante le avrebbero ricordato che Ashraf era esistito e che lei l'aveva perso.
Cadde in ginocchio accanto al corpo amato e calde lacrime iniziarono a rigarle il viso; la mano libera si poggiò su quei lineamenti che erano stati tutto il suo mondo, sfiorandone i contorni che la morte ancora non aveva sfigurato.
Come poteva vivere, se lui era morto?
Le mano si strinse ancora di più sulla spada e Zahira alzò la testa, chiudendo gli occhi e ascoltando.
La nenia funebre era finita, lasciando posto a un canto di gioia e sollievo.
Le labbra tinte di rosso si schiusero in un sorriso, mentre il cuore si svuotava da qualsiasi dolore.
Nulla di terreno poteva ferirla, ormai.
Baciò le labbra di Ashraf prima di compiere l'ultimo estremo atto d'amore.
Il proprio corpo sarebbe stato il fodero in cui la spada sarebbe arrugginita nell'eternità.
Un unico colpo, dritto al cuore, e la vita che non le apparteneva più l'abbandonò rapida.

Morì felice, Zahira, perchè avrebbe rivisto il suo Ashraf.
Morì senza sapere che la guerra era stata vinta grazie al sacrificio di Ashraf e che le sue nozze erano state sigillate dal sangue.
Cantò l'amore, il deserto.
Un amore che non aveva trovato nella morte la propria fine, ma un inizio che non avrebbe mai avuto conclusione.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 22, 2016 ⏰

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