Questo racconto è liberamente ispirato alla vita e alle scoperte di Henrietta Swan Leavitt, astronoma statunitense vissuta tra il 1868 e il 1921.
***
Voler vivere.
Lo pensai io, lo pensò lei.
Lo pensarono le cifre stampate sul grande progetto, l’inchiostro che ora si scioglie insieme alla carta, come il mio cuore lo fece davanti al suo sorriso entusiasta.I miei sudati studi tutti defluiti in un bollente camino, la sera d’inverno, la sera delle decisioni. Questa sera.
Affermo a me stessa che non servirà altro che una semplice equazione per trovare il metro dell’universo, il denominatore comune, la flebile corda che unisce i sogni dell’umanità con le polveri stellari.
Non è necessario il dietro le quinte: gli studiosi futuri, solo leggendo, capiranno cosa si sono ritrovati tra le mani.Tutto iniziò quando all’istituto proposero un lavoro alle ragazze della mia età, tra le quali Judit. Un contratto per diventare ricercatrici, così dicevano.
La nostra preparazione scientifica era già molto alta dopo l’università, avendo assistito ad innumerevoli lezioni dei più quotati professori del Massachusetts.
Ci fidammo quindi della proposta dell’istituto, la nostra casa fin da bambine.Avremmo dovuto superare dei test, quindi prepararci a suon di manuali di matematica e astronomia.
Imparai in un lampo, avevo sempre avuto una predisposizione alla memoria a lungo termine. Ne sapevo una più del libro.Non fu affatto difficile integrarmi nel mondo vero, del resto nel claustrofobico ufficio tutti sapevano delle sei ragazze sordomute e nessuno veniva ad importunarci tentando di intavolare una conversazione.
Svolgere i propri compiti con costanza, consegnarli, uscire per la passeggiata, cenare e coricarsi.
Consapevole della mia disabilità, tentavo di mascherarla e di evitare di giungere a quello spiacevole momento in cui la persona che mi è davanti muove le labbra ma all’improvviso non so come fare, come captare, come continuare a vivere.
Judit, invece, afferrava subito i concetti.
Non si sarebbe mai detto che le mancava qualcosa, conoscendola: capiva, si faceva capire.Io avevo bisogno di un aiuto, un supporto, una piccola spinta. La mia testa non era mai stata abituata alla mancanza di un senso che, inevitabilmente, condizionava ogni azione quotidiana.
Appunto per questo, sono sempre stata prudente: controllare e ricontrollare prima della consegna delle misurazioni, chiudere il chiavistello della camera prima di apprestarsi agli studi del progetto.
Lei invece l’opposto: amava giocare con il fuoco.
Sfiorare il pericolo, uscirne indenne e poi farsi notare per la sua abilità.
Giorno dopo giorno la nostra segreta confidenza creatasi tra una postazione e l’altra diventava automatica.
Le mani sfiorandosi non appena si metteva la propria borsa nell’armadietto, gli iridi contraendosi di sollievo quando i nostri sguardi si incontravano dopo tante trascrizioni su carta millimetrata.Si amava assaporare ciò che di bello rimaneva delle giornate.
Passai mesi distraendomi dal mio tavolo di studio mentre pensavo alle graziose forme del suo viso, quando avrei dovuto continuare con i miei studi segreti.
Ma alla fine ci riuscii, il progetto era completato. Quel plico di fogli valeva più della mia stessa vita. Perché in esso c'era tutta la mia mente e anche quella grande parte di concretezza che al mio essere mancava.
Oltre ad aver fatto una scoperta che sapevo avere un certo valore, il mio obbiettivo -proprio per promuoverla- era andare in Inghilterra.
La terra in cui davvero la civiltà progrediva. In cui i cervelli erano competenti ed andavano oltre le parole che non potevo dire.
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Hazey - Racconti | Wattys2017
Short StoryDi certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. Invece lo facciamo, lo facciamo di continuo. -am #260 in storie brevi, agosto 2017 #390 in storie brevi, luglio 2017