Prologo.

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Sono davanti lo specchio della mia casa a Washington. Quinto piano del palazzo,tra George street e Burt street,  a cento metri dal parco a est e a un kilometro di distanza dall'asilo a ovest in cui non ho mai messo piede. Conosco a memoria tutte le strade di Washington, mai uscita per vederle tutte.

Mio padre mi lega i capelli castani in una coda alta. Mi fa indossare un paio di leggins neri e una maglietta dello stesso colore.
«Perché oggi mi hai vestito così?» chiedo a mio padre guardandolo.
«Oggi è il tuo settimo compleanno tesoro, sei grande. Ed ora che ti prepari per il tuo futuro.» mi rispose mettedomi le mani sulle spalle.

Mio padre, Thomas Carter, ha ventinove  anni. Ha la carnagione scura e i capelli castani ricci che incorniciano un viso spigoloso dove giagiono due occhi azzurri come il cielo.
«Ma a me non piacciono questi vestiti.» piagnucolo guardandoci allo specchio.
«Anche la tua mamma indossava questi vestiti.»
«Davvero?»

Mia madre, Nikita Justice. È morta.
Mio padre non ne parla spesso. È un tipo riservato. Non parla con nessuno, solo con me. Sta sempre con me, anche se la notte non lo trovo mai. È come se sparisse, poi però la mattina è dietro il bancone con in mano il bicchiere di arancia a sorridermi.

So solo che lei è morta quando avevo ancora pochi mesi.
Mio padre mi ha raccontato che lei  aveva gli occhi verdi, i capelli castani lunghi e la pelle scura. Mi dice sempre che sono il suo riflesso.

Mi afferra per mano e con la mano libera prende una valigia.
«Dove andiamo papà?» chiedo entusiasta.
«A lavoro. Bambina mia.» mi risponde solamente.
Usciamo di casa chiudendoci la porta alle spalle. Ho come la sensazione che non vedrò casa mia per parecchio tempo.

Scendiamo con l'ascensore mentre mi tengo alla sbarra che c'è alla parete sollevando i piedi da terra.
È la prima volta che esco da casa. Dalla finestra vedevo un sacco di luci scorrere sotto, il rumore dei clacson delle auto...

Le porte dell'ascensore si aprono. Esco di corsa. Sono in un grande atrio. Alla mia destra c'è un bancone con dietro un signore chino su dei fogli e alla mia sinistra un lungo corridoio.
Gli arredi sono rossi con i contorni color oro.

Una donna con una grossa cartella mi viene addosso facendomi perdere l'equilibrio e cadere per terra. La guardo di traverso e mi alzo subito.
La donna continua per la sua strada senza rivolgermi uno sguardo.
Mio padre mi affianca.
«Tutto okey?» mi domanda.
Corro aprendo le grandi porte con vetrate davanti a me uscendo in strada.

C'è un grande trambusto. Non c'è nessuna luce. Solo delle macchine che strombazzano le une accanto alle altre. Mi guardo intorno, le persone mi passano accanto ma è come se non mi vedessero. Non era così che me l'ero immaginata la vita di sotto. Mi sembrava più felice, più colorata.

Mio padre mi afferra la mano e mi porta con se.
«Sai dove siamo?» mi chiede dopo un po'.

«Ellen street a seicento metri da casa in prossimità di uno dei tre più vasti quartieri poveri e abbandonati.» rispodo prontamente.
«Brava. Ma c'è una cosa che non c'è in nessuna di quelle mappe.» mi dice girando l'angolo.

Continuiamo dritti per qualla strada stretta e buia e arriviamo davanti a una vecchia casa.

Mio padre apre la botola del seminterrato che si trova sotto una finestra dal vetro rotto.
«Questa casa non c'era.»
«La strada che abbiamo percorso e questa casa non raffigurano in nessuna mappa. Sono delle costruzioni fantasma.» mi spiega.

Alla ricerca della verità (In Fase Di Creazione)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora