Capitolo sei

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A chat with the drug demon:

Namjoon smokes while being Dramatic

Kim Namjoon aveva la stoffa per fare grandi cose ma non aveva mai provato a cucire qualcosa che lo aggradasse.
Una vita passata nel buio della sua camera, plasmandosi sotto alle bacchettate rigide dell'istruzione scolastica.
Era un bambino prodigio che aveva iniziato a pensare al suo futuro ancora prima di aver imparato le tabelline a memoria.
Era l'eccezione alla regola che descriveva l'intelligenza come un vanto dei brutti e la bellezza come il fiore all'occhiello degli stupidi.
Era alto come i suoi voti e slanciato come il padre dimenticato.
Aveva due occhi da lupo e due fossette d'agnello.
Kim Namjoon aveva sacrificato gli anni frivoli del liceo sull'altare di marmo della malvagia strega chiamata scuola.
Scuola che voleva piccoli robot perfetti nelle loro divise stirate, le bocche chiuse che si aprivano solo al comando di un insegnante vecchio, rigido, il viso imbruttito da rughe che segnavano l'incompetenza del suo mestiere.
L'istruzione rendeva ricchi.
Nessuno però desiderava quella che si chiudeva nella scatola cranica.
Tutti preferivano quella profumata che ti aiutava a scrivere cifre con molti zeri su un conto bancario.
La famiglia finanziava quella divinità versando il sangue dei figli su quell'altare sporco di tante altre vittime.
"Una vita per il nome della tua famiglia" sussurravano all'orecchio di quei bambini, il pugnale stretto tra le mani tagliava le loro gole sporcandone le divise stirate.
Namjoon non era stato sgozzato dalla madre come un animale.
Aveva preferito prendere in mano quel coltello da solo, seguendo la linea del mento, affondando la lama nella sua carotide con la stessa forza con cui graffiava il quaderno mentre prendeva appunti.
Mentre i suoi compagni bevevano alcol amaro e perdevano la verginità tra i compiti di scuola abbandonati sul pavimento delle loro camere, Namjoon passava le notti chino sui suoi libri di testo lasciando che le dita affusolate si impregnassero dell'odore d'inchiostro nero.
Gli adolescenti si abbronzavano al sole dei parchi, fingendo di studiare autori vecchi come i loro professori.
Kim Namjoon venerava un unico Apollo, quello che reggeva la lampada della sua scrivania.
Dove i compagni fallivano, Namjoon trionfava.
Nuotava in un oceano di squali che lo temevano, strofinando sulla sua mano il muso insanguinato del sangue dei suoi compagni divorati.
La scuola era una gabbia di leoni: potevi essere il felino che si leccava i baffi dopo un pasto abbondante, oppure la carcassa divorata nella mangiatoia.
E Namjoon non era di certo il cibo mangiato e poi sputato di qualcuno.
Sapeva che il suo successo scolastico sarebbe stato glorioso.
Colei che lo aveva messo al mondo aveva grandi progetti per lui.
Prima ancora di compilare la domanda di ammissione al liceo, la signora Kim aveva fatto scivolare un dorato metro da sarta lungo le braccia e le spalle di Namjoon.
Ne aveva preso le misure perfette del suo corpo, il torace magro, le spalle larghe e le braccia lunghe e poco muscolose, annotandole su di un quaderno di cuoio nero.
Si preparava a far confezionare il completo perfetto che avrebbe fatto indossare al figlio d'adulto.
Polsini ricamati con un filo spesso di voti perfetti, un colletto stretto da una cravatta di seta nera come la sua valigetta da ingegnere.
Scarpe costose di vernice, la punta ben lucidata dai calci con cui scacciava le distrazioni non pertinenti allo studio.
Pantaloni morbidi al tatto, le dita sarebbero scivolate sul tessuto profumato, avrebbero avvolto gambe slanciate abituate a salire la scala piena di gradini in pendenza del successo.
Kim Namjoon bramava di stringere la mano a quegli amici con il viso verde come i quadrifogli: il denaro, l'unica amicizia che valesse la pena portare avanti.
C'era solo un angelo che riusciva ad accarezzare la testa del cattivo mostro intelligente senza essere morso.
Taehyung conosceva Namjoon dal giorno in cui l'alfabeto era ancora un campo inesplorato per tutti e due.
Dividevano la merenda sotto ad un albero dietro alla scuola cadente, i lacci delle scarpe sporchi di polvere e fango.
Taehyung era un bel bambino che si sporcava la bocca con la merendina al cioccolato e rideva nel vedere la sua faccia buffa nel riflesso della finestra.
Aveva un talento innato a farsi amare da tutti. Se rompeva qualcosa, era Namjoon a prendersi gli sculaccioni dalle maestre.
A Taehyung bastava un sorriso e la passava liscia.
A Namjoon non sarebbe bastato mettere in mostra tutti i denti che aveva in bocca per riuscire ad evitare una punizione.
Divennero adolescenti troppo velocemente, e i giochi dietro all'albero vennero sostituiti dal tetto della scuola superiore e dalle sigarette dal gusto amaro di Namjoon.
Namjoon amava giocare al funambulo sul tetto della scuola, un mozzicone stretto tra le dita affusolate e gli occhi di Taehyung sulla schiena.
Le ultime settimane di liceo le aveva passate a guardare nel vuoto, la gamba tesa in avanti, l'equilibrio stabile anche con leggere folate di vento.
Qualche giorno prima, una ragazzina dal viso pallido e dagli occhi stanchi aveva deciso di volare senza pensare a pensieri felici da quel tetto.
Era una Trilli senza ali, una Wendy senza polvere di fata.
Era precipitata da sette metri di altezza e nessuno l'aveva notato fino alle 5 del pomeriggio, quando gli studenti abbandonavano i banchi di scuola per occupare le sedie delle loro scrivanie.
Aveva dei bei capelli neri e nemmeno il suo cranio fracassato sul piazzale della scuola li aveva rovinati.
Ci avevano buttato della sabbia scura sopra alla macchia di sangue che per giorni aveva imbrattato il cemento del piazzale.
Quasi fosse una macchia maledetta, dei ragazzini del primo anno avevano già fatto girare delle storie per spaventare le ragazze quando rimanevano da sole a scuola, il sole già basso.
Tutti ne parlavano ma nessuno ricordava il suo nome.
"La ragazza del tetto" era diventato il nuovo nomignolo di quella povera anima.
17 anni erano troppo pochi per farsi fracassare la testa.
Bestie che nuotavano nell'oro, sputando parole d'odio a quegli esseri piccoli e inutili in cui si trasformavano gli agnellini che non avevano superato l'ultimo test in quella macabra terra promessa, sguazzando in un fiume di melma.
Ma come spesso accade, un agnellino o più poteva inciampare.
Cadeva fra i massi appuntiti, le ginocchia che sanguinavano, le lacrime che lasciavano solchi ben visibili sul viso sporco.
Una domanda sorgeva naturale a Namjoon, agnello in testa al gruppo e per niente malandato.
Chi ha bisogno di un agnello che non sa rialzarsi da solo?
Chi veramente vuole portarselo sulle spalle quando il macigno sulla schiena è troppo pesante?
Namjoon non voltava nemmeno lo sguardo quando il piccolo agnello, piangendo e urlando con una voce che graffiava la gola, veniva divorato dalle bestie con le zanne affilate.
Patetico agnello.
Patetiche bestie.
Quel professore che piangeva elencando tutte le qualità della povera defunta attorcigliava il fazzoletto tra le dita quasi per pulirsele.
Aveva spinto lui la ragazzina giù dal tetto, il sangue ancora denso sui palmi delle mani.
La scuola spingeva tutti al limite.
Bei voti da esporre su una bacheca, questo era ciò che contava veramente.
A quanto sembrava, la ragazzina si era piegata alle derisioni dei professori nei confronti dei suoi scarsi risultati scolastici.
E piegandosi si era spezzata davanti a loro.
Taehyung un giorno gli aveva raccontato che aveva paura di fare la stessa fine.
Aveva paura degli adulti, il suo sorriso infantile tradiva uno sguardo spaventato ogni volta che i suoi occhi scuri incrociavano quelli dei professori.
Sapeva di essere stupido, la testa gli doleva ogni volta che passava troppo tempo sui libri patinati di testo.
Namjoon fumava la sua sigaretta prestando sempre poca attenzione.
Taehyung rideva nel vederlo con la testa appoggiata al suo braccio, distesi sul tetto della scuola, le divise sporche di polvere sulla schiena.
"La conoscevo quella ragazza."
"Chi?"
"Quella che si è uccisa. Le avevo prestato il mio fazzoletto durante l'ora di chimica, qualche mese fa. Le usciva sangue dal naso, forse aveva dormito poco e studiato troppo. Ha bofonchiato qualcosa, aveva le guance rosse. All'ora di pranzo le ho chiesto se volesse dividere un panino al tonno con me. E' arrossita, ha preso il suo pranzo al sacco ed è scomparsa in corridoio. Chissà perché è corsa via in quel modo."
"Tae, mi prendi in giro? Cristo, hai visto la tua faccia? Far arrossire una piccola vergine è esattamente quello per cui il tuo bel visino è stato creato."
"Volevo davvero dividere quel panino al tonno con lei."
"E poi non offri mai il pranzo a me. Sei un piccolo bastardo che sa esattamente di essere bello e gioca a far arrossire ragazzine con la biancheria intima di una bambina."
"A te non piace il tonno."
"Non esistono solo i panini al tonno, Cristo!"
Namjoon usava troppo spesso l'esclamazione "Cristo" per uno che si era tatuato sull'anima le parole "Dio è morto".
Di certo Nietzsche sarebbe stato fiero di lui.
Mancavano solo un paio di settimane alla fine del liceo.
Gli studenti già sentivano la carta ruvida dei diplomi tra le dita.
Fu in uno di quei giorni che Namjoon, Taehyung al suo fianco come un bravo braccio destro che non lo abbandonava dalla tenera età di 5 anni, decise di lasciare la scuola.
Lo schiaffo della madre non fece nemmeno così tanto male.
Le urla nelle sue orecchie non avevano nemmeno lontanamente solleticato il suo timpano.
Imprecazioni, bicchieri rotti, minacce, nulla riuscì a smuovere il ragazzo prodigio dei Kim.
Nessuno seppe mai che cosa scattò nella complicata testa di Namjoon, quale ingranaggio si inceppò e difettò l'orologio sincronizzato sulle lancette del successo e dei soldi.
Lo buttarono fuori di casa, o forse se ne andò via da solo dopo l'ennesima notte insonne passata ad ascoltare le urla della madre.
Si era buttata affranta sul pavimento della sua camera, le mani avvinghiate alla stoffa dei suoi pantaloni.
Si batteva una mano sul petto, piangeva e urlava di aver pietà di lei, che la stava uccidendo, calpestandola come erba cattiva.
Taehyung non seppe mai che cosa uscì dalle parole di Namjoon quella sera.
Ma era certo, quasi quanto lo era della sua bellezza, che Kim Namjoon si fosse reso conto che vivere una vita pianificata da altri era stato il motivo per cui quella ragazza aveva deciso di gettarsi nel vuoto fingendo di saper volare.
Namjoon avrebbe volato, ma non da un tetto.
Namjoon avrebbe volato, ma non per issarsi sulle ali di cera costruite dalla madre.
Namjoon non avrebbe volato.
Era un essere umano, quelli rimanevano con i piedi per terra, seguendo una strada con in mano una mappa disegnata da loro.
E mentre l'estate giungeva al termine, Taehyung che scappava da un patrigno che puzzava di alcol e promettendo alla madre che sarebbe tornato a riprenderla, Kim Namjoon sussurrò alla madre: "Voglio essere Mangiafuoco, non una marionetta."

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