Capitolo 1;

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"7:13 A.M.", quei numeri rossi stampati sullo schermo nero della sveglia non mentivano.

Le prime luci del mattino iniziavano a filtrare dalle tapparelle orientabili poste a copertura delle due grandi finestre della stanza, una davanti e l'altra accanto al letto.

Probabilmente, erano stati proprio quei raggi solari, appena trapassati all'interno della camera, a svegliarmi. Da quanto tempo il mio sonno era diventato così leggero? Inutile restarci tanto a pensare.

Scostai le coperte bianche dal letto matrimoniale e, una alla volta, allungai le gambe scoperte verso il pavimento, fino ad alzarmi in piedi. Mi avvicinai, quindi, all'unica cassettiera presente nell'ambiente, anche questa bianca, come la gran parte degli interni i quali, contornati da delle pareti grigio scuro, insieme ad alcuni elementi neri, donavano un piacevole design moderno alla stanza.

Fu quando raggiunsi il mobile che, sulle mie labbra, si aprì un sorriso quasi dolce: anche quel giorno, la colazione era già lì, ad attendermi. Un gentile omaggio del padrone di casa.

Il Signor Smith, il proprietario, era stato l'unico che, dal giorno del mio trasferimento, mi aveva presa sotto la sua ala, trattandomi come una di famiglia.

Sette e quaranta, ero già in ritardo.

Avevo sempre detestato il caffè americano, ma era sempre risultato meglio di niente, così svuotai in fretta la tazzina e, con la stessa premura, riuscii a lavarmi, vestirmi, pettinarmi e truccarmi in, si e no, quindici minuti.

Poi, mentre le gambe fasciate da una gonna a tubino nera, a vita alta, si muovevano veloci, i tacchi delle decolte nere scandivano ogni passo, ogni scalino, fino all'uscio della porta principale. -"A stasera, Signor Smith!"- E subito fuori, spedita verso il negozio.

[...]

Lavorare in una boutique, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, non era stato certo mai considerato un lavoro semplice. La moda cambiava, anche drasticamente, e, per lo più, la gente tendeva a seguirla, ma non si poteva mai sapere se, dall'entrata principale, sarebbe sbucato un nostalgico, ancora fermo alla precedente decade. A quel punto, iniziava la sfida vera e propria: o trovavi qualcosa che andasse bene anche ai nostalgici, o perdevi un cliente. Cliente dopo cliente, avresti potuto perdere anche il posto.
La porta risuonò, non appena si richiuse, ed i miei occhi, ancora fissi su una camicia da piegare, distesa sul bancone, solo ora si spostarono.
Ad aver fatto il suo ingresso era stato un uomo dalla distinta eleganza. Un uomo d'affari, probabilmente.
Notai il suo modo di vestire, quel completo blu scuro cadeva bene sul suo corpo, forse grazie anche alla spiccata altezza: un metro ed ottanta, ad occhio e croce.
Ma a renderlo elegante contribuiva quell'evidente cura che aveva di sé stesso: era come se non lasciasse mai nulla al caso, dai capelli, perfettamente pettinati con una precisa riga laterale, fino all'ultimo accessorio, come quei Ray-Ban dalle lenti a goccia scure, che tolse dal viso solo quando cominciò a curiosare tra la merce esposta.

- "Per qualsiasi cosa, siamo a sua disposizione!"

Esclamai, come ero solita fare con ogni cliente e, quasi sempre, non ricevevo neanche un accenno di risposta. Questa volta, però, le cose furono diverse.
L'uomo sollevò le iridi azzurre verso di me, sorprendendomi, con un sorriso quasi ironico stampato sul volto.

- "Siamo?" - replicò riprendendo le mie parole, mentre il suo sguardo, da me, si spostò a curiosare per tutto il negozio - " Eppure, vedo una sola persona."

Quanto aveva ragione, e quanto odiavo il fatto che ne avesse. Aveva ragione lui, in quel negozio ero sola, solo io e basta, il che era privo di senso, visto che quella boutique non era neanche mia! Avevo solo trasformato quello che doveva essere un lavoro part-time in uno a tempo pieno, non avevo certo chiesto la proprietà del locale.

- " Ha ragione, sono a sua disposizione." - Mi corressi sospirando appena. - "Così suona meglio?"

Fossi stata in un altro contesto, non mi sarei certo messa a fare la leziosa in modo così spudorato, ma qui era diverso. Qui vigeva la solita regola: il cliente aveva sempre ragione.
Tornai a sistemare quella camicia lasciata, quasi abbandonata, sul bancone, infastidita, forse, da quella specie di richiamo. A peggiorare il tutto, però, fu una sua risata, probabilmente dovuta a quella mia stessa correzione.
- "Senta, se le serve qualcosa, sa dove trovarmi, ma oggi non è giornata, e non ho affatto voglia di stare qui a discutere su un singolare o un plurale."

L'uomo si avvicinò al bancone, ponendosi proprio davanti a me. Sorrideva spavaldo, guardandomi dall'alto al basso, aiutato da un'abitudine di cui mi ero accorta dal momento in cui era entrato: camminava a mento alto, sfrontato, proprio come il suo sorriso.

- "Lei non è di qui, non è così?"

Avevo passato già due anni a New York, eppure, non ero mai riuscita ad acquisire l'accento giusto. Così, in tutta sincerità, scossi la testa in segno di no, prima di riprendere parola.

- "No, infatti. Vengo da Roma."

L'uomo si irrigidì al sentir pronunciare quel nome. Lo notai stringere un pugno ed avrei potuto giurare, per un istante, di averlo sentito trattenere il fiato, per poi rilasciarlo.
Corrugai la fronte. Che cosa aveva lui a che fare con Roma? Non mi sembrava di aver detto niente di strano, era una città come tante. Ma per lui no, evidentemente.
Quel sorriso spudorato sparì dal suo volto, strinse appena lo sguardo, turbato. Come se mi stesse chiedendo qualcosa, qualcosa che io non sarei riuscita mai a capire.

Poi fu un attimo, portò nuovamente i Ray-Ban sul viso ed uscì dal negozio, senza darmi neanche il tempo di un "arrivederci".

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Così si conclude il primo capitolo di Exilium. 
Ma chi è questo uomo? E, soprattutto, cosa ha a che fare con Roma?
Non sarà semplice, per Marzia, trovare delle risposte a tali domande, ma sarà ancora più difficile accettarle. 
Tutto questo, nei prossimi capitoli!

Prossimo capitolo: Lunedì.

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