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Pov's Layla

La sveglia suonò e io la spensi senza neanche alzarmi dal letto; non volevo proprio saperne di andare a scuola. Richiusi gli occhi, ma la voce stridula di Marilyn me li fece riaprire sobbalzando.
«Svegliati ragazzina, devi andare a scuola» continuava ad urlare.
Mi alzai di malavoglia e mi diressi verso il bagno. Preferivo davvero uscire e andare a scuola piuttosto che condividere l'appartamento per più di mezz'ora con quella donna. Fu per questo che mi trovai un lavoro come meccanica in un officina ben distante da casa mia. Avevo sempre avuto la passione per i motori, proprio come i miei genitori, questi però furono anche la causa della loro morte. Erano in moto, stavano rientrando da lavoro mentre io ero per la prima (ed unica) volta a casa con una babysitter. Ricordo perfettamente la faccia della ragazza quando mi disse che dovevano correre in ospedale. Era pallida e apparentemente dispiaciuta.
Ricordo tutto alla perfezione. Quella sera non morirono solo i miei genitori, ma anche il frutto del loro amore; io.

Lavai il viso con dell'acqua gelida per scacciare via tutti quei pensieri, anche se non sarebbe bastato nemmeno l'oceano Atlantico a farmi dimenticare quella maledetta sera d'estate.
Legai i capelli in un'alta coda, lavai i denti e mi truccai. Nel makeup che usavo di più non mancavano mai matita per occhi nera e mascara nero, poi di rado usavo il rossetto, tra i colori più usati c'erano: bordeaux, marrone, viola, nero, e un mix, fatto da me, tra bordeaux e viola.
Quella giornata decisi di mettere il rossetto marrone con un filo di rosso sopra. Mixai i due colori e il risultato mi piacque molto.
Uscii dal bagno e andai davanti al mio armadio. Lo aprii. Tra tutti i colori cupi, scuri, regnavano il nero e il grigio scuro. Quei colori rispecchiavano il mio stato d'animo, erano come oggetti che dichiarassero al mondo intero di starmi alla larga.
Restai a lungo a fissare l'armadio. Non mi importava dell'orario, a scuola non ci sarei andata comunque.
Decisi di prendere la mia tuta da lavoro, ovvero una tuta di jeans, larga per me, da meccanico con gli stivali da lavoro che mi regalo John, il mio datore di lavoro.
Sotto il completo misi una canotta nera. Misi una felpa presa al volo, anch'essa nera, presi cellulare e chiavi di casa per poi infilare tutto nelle tasche ed uscii dal retro. Non volevo farmi vedere da Marilyn. Lei non sapeva nemmeno che io lavorassi. Le raccontavo che stavo tanto tempo fuori alla ricerca di tranquillità, ed in parte era vero. Le uniche cose capaci a tranquillizzarmi erano musica e motori.
Dopo aver camminato per circa quarantacinque minuti, arrivai a lavoro e trovai ad accogliermi John con un grande sorriso.
«E tu che ci fai qui, birbantella?» disse senza smettere di sorridere.
Risi per il nomignolo che mi aveva assegnato.
«Non avendo voglia di andare a scuola son venuta qui, ti causa problemi?» risposi.
«Assolutamente no, ma non voglio che tu trascura la scuola come ho fatto io. Guarda oggi come mi ritrovo; all'epoca avevo anch'io dei sogni. Sognavo di poter viaggiare il mondo, di diventare un meccanico aerospaziale» rispose sorridendo. Nel suo sorriso, ma sopratutto nei suoi occhi, c'era un pizzico di tristezza, rimpianto.
«Non trascurare la scuola. Se potessi, tornerei indietro per studiare e realizzare quelli che una volta erano i sogni della mia gioventù» continuò. Io sapevo che sognava ancora di poter realizzare i suoi sogni, ma lui diceva sempre che ormai era troppo tardi per lui.
«Ehy, non ti permetto di parlare in questo modo. Sei un meccanico fantastico e una persona meravigliosa ed in gamba perlopiù. Se hai dei sogni, va lì fuori e realizzali. Nessuno ci ha detto che sarebbe stato facile farlo, ci hanno solo assicurato che ne sarebbe valsa la pena. Non permettere a niente e a nessuno di distruggere i tuoi sogni, mai. Combatti per tenerli vivi e lasciali andare solo una volta realizzati» gli risposi. Forse non c'entrava nulla col nostro discorso, ma io riuscivo a leggergli dentro e quella era una cosa che avrei voluto dirgli da tanto tempo.
Lui alzo il capo dalla chiave inglese che aveva tra le mani e mi sorrise. Quel sorriso stava a significare "Grazie" e io risposi con un altro sorriso.
«Sono fiero di te, Layla» mi disse.
Vedevo John come la mia famiglia, una vera famiglia. E quelle parole mi fecero davvero felice.
«Anche io di te, John. È ora di metterci a lavoro!» dissi tanto per alleggerire l'aria pesante che si era creata.
Andai verso una moto, una Ducati nera per l'esattezza e domandai a John di chi fosse. Quella moto mi era stranamente familiare.
Prima che John potesse rispondermi, sentii una voce e decisi di voltarmi. Non credevo alla mia vista. Henderson.
«Salve John....Layla» disse salutandoci.
Un'altra me gli avrebbe risposto "Cazzo vuoi Henderson?" ma non lo feci per due motivi. Il primo era che ero sul posto di lavoro e il secondo era che avevo riconosciuto la sua moto e mi sembrava alquanto bizzarro chiedergli cosa volesse in un'officina con la sua moto all'interno.
Mi limitai a fare un gesto col capo.
«Tra quanto è pronta?» chiese a John, dimenticandosi del tutto di me.
«Layla, tra quanto è pronta?»  chiese John a sua volta.
«Se ha bisogno solo della revisione, passa tra quindici minuti» risposi io.
«Neah, resto qui ad aspettare» disse Logan.
Iniziai ad imprecare mentalmente. Nonostante avessimo avuto una normale, ma nel contempo strana, conversazione la sera prima, provavo ancora rabbia, ostinazione nei suoi confronti.
«E se ci vorrà tempo?» chiesi al ragazzo dalle fossette dolci.
«Non importa. Non ho nulla da fare e oggi non mi andava di andare a scuola» mi rispose per poi mettere le mani in tasca.
"Fantastico" pensai con sarcasmo.
Mi limitai ad annuire per poi fare un cenno a Logan di seguirmi. Così fece. Arrivammo davanti alla sua moto e la guardai, un tantino ammirata. Vedevo moto tutti i giorni, ma raramente mi capitava una Ducati tra le mani.
Mi misi subito a lavoro controllando prima se ci fosse mancanza di olio nel serbatoio; era a secco.
«Manca l'olio...» dissi più a me stessa che a lui. Stavo elencando le cose da riparare.
Passai a controllare il motore; era sporco di grasso. Lo ripulii e questo mi causò delle macchie nere sul viso, sulle mani e sulla tuta.
Dopo essermi accertata che tutto nel motore andasse bene, passai ai freni; non funzionavano per niente. Il filo del freno anteriore era quasi spezzato mentre quello del freno posteriore era totalmente spezzato.
«Sei un pazzo ad andare in giro così» gli dissi alzando un attimo lo sguardo per puntarlo nel suo.
«E tu dannatamente sexy con il grasso dei motori in faccia» disse mordendosi le labbra.
"Possibile che è sempre lo stesso cazzone?" pensai tra me e me.
Roteai gli occhi per poi sbuffare.
«Comunque mi ci vuole minimo mezza giornata» dissi.
«Oh tranquilla, io mi metto buono buono qui» disse sogghignando.
«Ma perché continui a rendermi l'esistenza impossibile?» gli chiesi guardandolo negli occhi e reggendo il suo sguardo divertito.
«Cosa c'è, stellina? Un cliente non può assistere al lavoro che viene svolto per la sua moto?» chiese andandosi a sedere sul divano che si trovava dentro di me mantenendo la sua espressione divertita.
«Sì, certo che può. Ma non tu. Tu sei fastidioso...e sei un idiota perlopiù» dissi iniziando a ricreare il freno anteriore.
«Ma perché sei così scontrosa con me?» mi chiese.
Prima che potessi rispondere, una voce ci interruppe. John.
«Layla, io vado. È successo un casino con Harry» urlò.
Harry era suo figlio. Aveva diciotto anni ed era ribelle, come me. Andavamo molto d'accordo, mi piaceva la sua compagnia. Ma, ahimè, ci incontravamo pochissime volte.
«Che tipo di casino?» chiesi ignorando del tutto Logan.
«Ha fatto a botte con non so chi, probabilmente anche col vice preside. Non so cosa devo fare con questo ragazzo» disse frustrato uscendo dall'officina.
«Ci vediamo più tardi» urlo da fuori per poi salire nella sua auto e sfrecciare via.
Harry non era un tipo violento. Mi sorprese che fu coinvolto in una rissa. Probabilmente avevano insultato sua madre (donna che si dice fu una prostituta che diede alla luce Harry per poi scappare senza dargli mai l'occasione di conoscerla) oppure ha difeso qualcuno, anzi, qualcuna.
«Quindi ora siamo soli» la voce roca di Henderson mi riportò dai miei pensieri.
-Così pare.
-Ti dispiace?
-Tu non sai quanto.

Lui sospirò poi continuò.

-Ma perché continui a comportarti da stronza? E non rispondere "Io sono stronza" perché sappiamo entrambi che non è così.

Mi fece il verso.

-Henderson, tu non mi conosci. Non sai niente di me. Non sai cosa sono o cosa non sono. Per tre anni non mi hai mai rivolto una parola se non insulti e ora vieni qui e credi di conoscermi? Tu non mi conosci, nessuno mi conosce e credo sia meglio così.

Dissi con rabbia. Davvero non potevo accettare che per una volta che avevamo conversato lui credeva di conoscermi.

-Così facendo rimarrai sola, te ne rendi conto?
-Ci ho fatto l'abitudine.
-E non credi sia una cosa triste?
-Logan, tu hai portato la tua moto da me ed è mio compito sistemarla. Manteniamo il rapporto professionale e non parliamo più di cose che non siano inerenti ai motori.

Conclusi quell'assurda conversazione sbuffando.

Finito il freno anteriore, iniziai a sistemare quello posteriore. Logan era molto silenzioso, continuava ad osservarmi.
Anche la sua sola presenza mi infastidiva, ma devo ammettere che fu molto dura con lui, nonostante lui con me si comportasse uno schifo.

Dopo vari minuti, terminai di riparare i freni. Successivamente mi feci dare le chiavi da Logan per provare il motore.
Lui me le diede senza controbattere e io salii sulla sua moto.
"Oddio! Sono su una Ducati!" pensai entusiasta.
Probabilmente la mia espressione "Sono su una Ducati, beccatevi questa Babbani!" fece sorridere Logan. Io notai il suo sorriso e sorrisi con lui. Non volevo sorridere, ma quel sorriso mi uscì dall'anima. Logan Henderson mi aveva appena strappato un sorriso.
Inserii la chiave per poi mettere in moto. Feci ruggire il motore senza smettere di sorride mentre nel contempo mi mordevo le labbra. Troppa adrenalina in quel garage.
«Ora è come nuova» ritornai alla realtà scendendo dalla moto e porgendo le chiavi al suo proprietario.
Lui mi sorrise. «Puoi fare un giro se vuoi» disse.
"Certo che voglio!" risposi mentalmente.
Ahimè, ero da sola a lavoro e non potevo lasciare l'officina incustodita.
«Grazie, mi piacerebbe molto, ma ora non posso lasciare l'officina» risposi.
Lui prese le chiavi sorridendo, si mise sulla sua moto e parlò. «Sarà per la prossima volta?»
Io annuii e risposi col sorriso «Sarà per la prossima volta»
Lo vidi sorridere un'ultima volta per poi vederlo sfrecciare via dall'officina.
Era strano il rapporto che stavo creando con lui; andavamo d'accordo solo dieci minuti al giorno. Un nuovo record.
Forse non dovevo essere così dura con lui, ma non volevo deludere e rimanere delusa per l'ennesima volta così non gli davo l'opportunità di stringere con me. E poi lui era il capitano della squadra di basket, nonché il ragazzo più popolare della scuola, non volevo lo vedessero con me e magari ascoltare commenti tipo "Ma cosa deve farci con quella?" "Secondo me ci sta vicino per pietà" o robe simili.
Questi miei pensieri mi fecero infuriare, ancora una volta; non volevo far pena a nessuno, tanto meno a Logan.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 28, 2016 ⏰

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