Ill Angeles

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"Un demone Teuthida?” domandò Julian al telefono, strizzando gli occhi. “In pratica un calamaro, giusto?”
La risposta le risultò incomprensibile: Emma riusciva a riconoscere la voce di Ty, ma non le sue parole.
“Sì, siamo al molo,” proseguì Julian. “Non abbiamo ancora visto nulla, ma siamo appena arrivati. È un peccato che non abbiano dei posti riservati per le macchine degli Shadowhunters…”
Badando solo in parte alla voce di Julian, Emma si guardò intorno. Il sole era quasi tramontato. Aveva sempre amato il Molo di Santa Monica, sin da quando era una bambina e i suoi genitori la portavano lì per giocare a hockey da tavolo e cavalcare le giostre vecchio stile. Le piacevano il cibo spazzatura – gli hamburger e i milk-shake, le vongole fritte e gli enormi leccalecca attorcigliati – e il Pacific Park, il fatiscente parco divertimenti alla fine del molo, affacciato sull’Oceano Pacifico.
I mondani avevano speso milioni di dollari per rimodernare il pontile e trasformarlo in un’attrazione turistica, negli anni. Il Pacific Park era pieno di giostre nuove e scintillanti; i vecchi carrettini del churro erano spariti, sostituiti da gelati artigianali e piatti di aragoste. Ma le tavole di legno sotto ai piedi di Emma erano ancora deformate e logorate da anni di sole e sale. L’aria continuava a sapere di zucchero e alghe. Le giostre non avevano smesso di spargere in giro la loro musica meccanica. E c’erano ancora dei punti scuri sotto al molo, dove si radunavano mondani senza meta e, a volte, cose ancora più sinistre.
Era questa la particolarità degli Shadowhunters, pensò Emma, facendo scorrere lo sguardo per il pontile fino ad arrivare all’enorme ruota panoramica decorata con dei LED scintillanti. Una fila di mondani era impaziente di calarsi giù dal parapetto di legno; oltre la ringhiera le riusciva di osservare l’acqua blu diventare bianca nei punti in cui le onde si frangevano. Gli Shadowhunters vedevano la bellezza delle cose create dai mondani – le luci della ruota che si riflettevano sull’oceano in maniera così luminosa da dare l’impressione che qualcuno stesse facendo esplodere dei fuochi d’artificio sott’acqua: rosso, blu, verde, viola e oro –, ma erano in grado di notare anche l’oscurità, il pericolo e il marciume.
“Qual è il problema?” le domandò Julian. Aveva fatto scivolare il cellulare nella tasca della giacca della sua uniforme. Il vento – c’era sempre vento, sul molo, vento che soffiava senza tregua dall’oceano e odorava di sale e posti lontani – scompigliò le onde morbide dei suoi capelli castani, facendole baciare le guance e le tempie di Julian.
Pensieri oscuri, avrebbe voluto rispondere Emma. Non poteva, però. Un tempo Julian era stato la persona a cui poteva raccontare qualunque cosa. Adesso era quello a cui non poteva dire nulla.
Evitò il suo sguardo. “Dove sono Mark e Cristina?”
“Da quella parte.” Julian indicò un punto. “Vicino al lancio degli anelli.”
Emma seguì il suo sguardo fino allo stand vivacemente dipinto dove le persone facevano a gara per scoprire se sarebbero riuscite a lanciare un anello di plastica intorno al collo di una delle bottiglie allineate. Si sforzò di non provare un senso di superiorità, visto che i mondani sembravano trovarlo difficile.
Il fratellastro di Julian, Mark, stringeva tra le mani tre anelli di plastica. Cristina, i capelli scuri raccolti in uno stretto chignon, gli stava accanto mangiando del mais caramellato e ridacchiando. I riccioli di un biondo quasi bianco di Mark spiccavano contro il nero dell’uniforme mentre lui lanciava gli anelli: tutti e tre insieme. Ognuno volteggiò in una direzione diversa e finì intorno al collo di una bottiglia.
Julian sospirò. “Diciamo pure addio al non dare nell’occhio.”
Un miscuglio di incitamenti e versi di sconcerto si alzò dal gruppo di mondani che circondava lo stand del lancio degli anelli. Per fortuna, non erano molti, e Mark riuscì a recuperare il suo premio – qualcosa in una busta di plastica – e scappare senza creare troppa confusione.
Si diresse verso di loro con Cristina al suo fianco. Le punte delle sue orecchie appuntite facevano capolino tra i suoi riccioli chiari, ma erano stati incantate in modo da non essere viste dai mondani. Mark era una mezza fatta, e il suo sangue Nascosto si mostrava nella delicatezza dei suoi tratti, nelle punte delle orecchie e nella spigolosità dei suoi occhi e degli zigomi.
“Quindi è un demone calamaro?” chiese Emma, principalmente per avere qualcosa con cui riempire il silenzio tra lei e Julian. C’erano un sacco di silenzi, tra loro, di recente. Era passata solo una settimana dal momento in cui era cambiato tutto, ma riusciva ad avvertire la differenza in profondità, nelle ossa. Sentiva la distanza di Julian, anche se da quando gli aveva parlato di lei e Mark non era stato altro che scrupolosamente educato e gentile.
“Così pare,” rispose Julian. Mark e Cristina erano ora a portata d’orecchio; lei aveva terminato il suo mais caramellato e fissava il fondo della busta quasi con la speranza che se ne sarebbe comparso dell’altro. Emma riusciva a capirla. Mark, invece, aveva lo sguardo fisso sul suo premio. “Si arrampica sul fianco della banchina e afferra le persone – perlopiù bambini, chiunque si sporga oltre il bordo per fare una foto notturna. Sta diventando più coraggioso, però. Pare che qualcuno l’abbia avvistato all’interno dell’area giochi che si trova nei pressi dell’hockey da tavolo – quello è unpesce rosso?”
Mark sollevò la busta di plastica. All’interno, un piccolo pesce arancione nuotava in cerchio. “Questa è la pattuglia migliore che io abbia mai fatto,” disse. “Non ero mai stato ricompensato con un pesce.”
Emma sospirò dentro di sé. Mark aveva passato gli ultimi anni nella Caccia Selvaggia, il gruppo più anarchico e bestiale tra tutte le fate. Attraversavano il cielo in sella a ogni tipo di essere incantato – motociclette, cavalli, cervi, massicci cani ringhianti – e cercavano campi di battaglia, rubando gli oggetti di valore dai cadaveri e offrendoli come tributi alle corti fatate.
Si stava riabituando bene a vivere con la sua famiglia Shadowhunters, ma a volte la vita normale sembrava ancora coglierlo alla sprovvista. Si rese conto che tutti lo stavano guardando e inarcò un sopracciglio. Pareva allarmato, e circondò le spalle di Emma con un braccio incerto, tenendo sollevata la busta con l’altra mano.
“Ho vinto un pesce per te, mia diletta,” le disse, e baciò la sua guancia.
Era un bacio dolce, gentile e morbido, e Mark aveva il suo solito odore: quello dell’aria gelida dell’esterno e delle robe verdi che crescono. E aveva assolutamente senso, pensò Emma, che Mark pensasse che tutti fossero sorpresi perché si aspettavano che desse a lei il suo premio. Dopotutto, era la sua ragazza.
Scambiò uno sguardo preoccupato con Cristina, che aveva sbarrato tantissimo gli occhi scuri. Julian sembrava sul punto di vomitare sangue. Quell’espressione durò solo per un attimo, prima che si imponesse di tornare indifferente, ma Emma si staccò da Mark rivolgendogli un sorriso di scuse.
“Non riuscirei mai a tenere in vita un pesce,” dichiarò. “Uccido le piante solo guardandole.”
“Sospetto che avrei il tuo stesso problema,” le rispose Mark, occhieggiando il pesce. “Che peccato – l’avrei chiamato Magnus, perché ha le scaglie scintillanti.”
A quel punto Cristina ridacchiò. Magnus Bane era il Sommo Stregone di Brooklyn, e aveva un debole per i glitter.
“Suppongo che farei meglio a liberarlo,” disse Mark. Prima che qualcuno potesse dirgli qualcosa, si avvicinò al parapetto del molo e fece cadere il contenuto della bustina, pesce e tutto il resto, nel mare.
“Qualcuno ha voglia di dirgli che i pesci rossi vivono nell’acqua dolce e non possono sopravvivere nell’oceano?” domandò lentamente Julian.
“Non proprio,” fece Cristina.
“Ha appena ucciso Magnus?” chiese Emma, ma, prima che Julian potesse risponderle, Mark si voltò di scatto.
Tutto il divertimento era sparito dal suo viso, e i suoi occhi – uno blu, l’altro dorato – erano sbarrati. “Ho appena visto qualcosa trascinare in acqua uno dei pali sotto al molo. Qualcosa di decisamente non umano.”
Fu come se avessero tutti preso la scossa. Nel giro di qualche secondo ognuno aveva un’arma in mano – Emma stava brandendo la sua spada, Cortana, una lama dorata che le era stata data dai suoi genitori. Julian stringeva una spada angelica, e Cristina il suo coltello a farfalla.
“Da che parte è andato?” chiese Julian, teso.
“Verso la fine del molo,” rispose Mark; era stato l’unico a non tirar fuori un’arma, ma Emma sapeva quant’era veloce. Nella Caccia Selvaggia, il suo soprannome era stato “colpo d’elfo”, visto quanto rapido e preciso era con l’arco e le frecce o quando si trattava di lanciare un coltello. “Verso il parco divertimenti.”
“Andrò da quella parte,” disse Emma. “Cercherò di spingerlo giù dal bordo del pontile – Mark, Cristina, voi andate lì sotto, acchiappatelo se dovesse cercare di strisciare di nuovo in acqua.”
Ebbero a stento il tempo di annuire prima che Emma corresse via. Il vento le strattonava la treccia mentre si faceva strada tra la folla, diretta verso la fine del molo. Cortana era calda e solida tra le sue dita, e i suoi piedi volavano sulle tavole di legno curvate dal mare. Emma si sentiva libera; le preoccupazioni erano state messe da parte, e tutto nella sua mente e nel suo corpo era concentrato sulla missione.
Riusciva a sentire dei passi dietro di sé. Non aveva bisogno di controllare per sapere che si trattava di Jules. I suoi passi l’avevano seguita per tutti gli anni in cui era stata una Shadowhunter attiva. Il suo sangue era stato versato insieme a quello di lei. Le aveva salvato la vita, e lei l’aveva salvata a lui. Julian era parte del suo essere guerriero.
“Lì,” lo sentì dire, ma l’aveva già notata: una figura scura e ricurva che si arrampicava sulla struttura di supporto della ruota panoramica. Le carrozze continuavano a ruotargli intorno, e i passeggieri gridavano di gioia, inconsapevoli.
Emma raggiunse la coda per la ruota e iniziò a spingere per attraversare la folla. Lei e Julian si erano disegnati delle rune in grado di nasconderli, prima di raggiungere il molo, ed erano invisibili agli occhi dei mondani. Questo non significava che non potessero far sentire la propria presenza, però. I mondani in fila imprecavano e urlavano mentre Emma calpestava i loro piedi e li prendeva a gomitate.
Una carrozza era appena arrivata giù dondolando; una coppia – una ragazza che mangiava zucchero filato viola e il suo fidanzato allampanato e vestito di nero – era sul punto di salire. Guardando in alto, Emma vide uno sfavillio mentre il demone strisciava lungo la cima della ruota sospesa. Imprecando, Emma spinse via la coppia, quasi buttandola a terra, e balzò sulla carrozza. Era ottagonale, con una panca che correva tutto intorno alle pareti e un sacco di spazio per stare in piedi. Sentì delle urla di sorpresa mentre la carrozza si sollevava, portandola via dal caos che aveva creato, dalla coppia che era stata sul punto di salire sulla ruota e che adesso stava strillando contro al bigliettaio e dalle persone in fila dietro di loro che urlavano l’una contro l’altra.
La carrozza dondolò sotto ai suoi piedi mentre Julian atterrava al suo fianco. Jules allungò il collo. “L’haivisto?”
Emma strizzò gli occhi. L’aveva visto, ne era certa, ma sembrava essere svanito. Dalla sua angolazione, la ruota panoramica non era altro che un pasticcio di luci brillanti, raggi ruotanti e barre di ferro dipinte di bianco. Le due carrozze sotto di loro erano vuote; la fila doveva starsi ancora smistando.
Bene, pensò Emma. Meno gente saliva sulla ruota, meglio era.
“Ferma.” Sentì la mano di Julian sul braccio, le sue dita che la facevano voltare. Tutto il corpo di Emma si irrigidì. “Rune,” le disse, brusco, e lei notò che Julian stringeva lo stilo in pugno.
Abbassò la mano con cui stringeva Cortana. La loro carrozza stava ancora salendo. Emma riusciva a vedere la spiaggia sotto di loro, l’acqua scura che si riversava sulla sabbia, le colline di Palisades Park che si sollevavano sopra l’autostrada, incoronate da una frangia di alberi e piante.
Le stelle erano fioche, ma si scorgevano dietro le luci luminose del molo. Julian non le strinse il braccio rudemente o con gentilezza, ma con una sorta di distacco clinico. Lo girò, con lo stilo che tracciava dei rapidi movimenti lungo il polso di Emma, disegnandole rune di protezione, di velocità e di agilità e di precisione.
Emma non si avvicinava così tanto a Jules da una settimana. Si sentiva come se avesse le vertigini, un po’ ubriaca. Il capo di Julian si chinò, gli occhi fissi sul suo compito, ed Emma ne approfittò per assorbire quella vista.
Le luci della ruota erano diventate ambra e gialle; facevano diventare la pelle abbronzata di lui color oro. I capelli gli ricaddero sulla fronte in onde soffici e sciolte. Emma conosceva la morbidezza della pelle ai lati delle sue labbra, e la sensazione delle spalle di Julian sotto le sue dita, forti e dure e vibranti. Le sue ciglia erano lunghe e folte, così scure da sembrare di carbone; Emma quasi si aspettava che lasciassero sulle guance una scia di polvere nera, quando Julian le sbatteva.
Era bellissimo. Lo era sempre stato, ma lei se ne era accorta troppo tardi. E adesso se ne stava ritta con le mani lungo i fianchi e il corpo che le faceva male perché non poteva toccarlo. Non avrebbe potuto toccarlo mai più.
Julian finì ciò che stava facendo e ruotò lo stilo in modo che il manico fosse rivolto verso di lei. Emma lo prese senza fiatare mentre lui si scostava il colletto della maglia sotto alla giacca della divisa. La sua pelle, lì, era di una sfumatura più chiara rispetto al viso e alle mani abbronzati; c’erano più e più segni sbiaditi di quelle rune che aveva utilizzato ed erano svanite.
Emma dovette fare un passo nella sua direzione per marchiarlo. Le rune fiorirono sotto alla punta del suo stilo: agilità, visione notturna. La sua testa raggiungeva appena il mento di Julian. Gli stava fissando la gola, e lo notò deglutire.
“Dimmi solo,” fece lui. “Dimmi solo che ti rende felice. Che Mark ti rende felice.”
Emma sollevò il capo di scatto. Aveva terminato la runa; Julian si mosse per toglierle lo stilo dalle dita immobili. Per la prima volta dopo quelli che a lei erano parsi secoli, la stava guardando direttamente, con gli occhi resi blu scuro dai colori del cielo notturno e dal mare, che si spargevano tutt’intorno a loro mentre la ruota panoramica raggiungeva la sua cima.
“Sono felice, Jules,” gli rispose. Che avrebbe mai potuto cambiare una bugia in mezzo a tante altre? Non era mai stata il tipo di persona che mente con facilità, ma stava imparando. Quando in gioco c’era la salvezza delle persone che amava, aveva scoperto di saperlo fare. “Questo è – è più saggio, più sicuro per entrambi.”
La piega della bocca gentile di Julian si indurì. “Non è…”
Emma restò senza fiato. Dietro di lui era comparsa una sagoma che si contorceva – era del colore del petrolio, coi tentacoli a frange aggrappati a uno dei raggi della ruota. La sua bocca era spalancata, un cerchio perfetto contornato da denti.
Jules!” urlò, e si scagliò fuori dalla carrozza, tenendosi a una delle sottili barre di metallo che correvano tra i raggi. Penzolando da una sola mano, lo colpì con Cortana mentre il demone si ritraeva. Il Teuthida ululò, spargendo ichor; Emma cacciò un urlo quando il liquido le finì sul collo e le bruciò la pelle.
Un coltello trapassò il corpo tondo e rinforzato del demone. Tirandosi su uno dei raggi, Emma abbassò lo sguardo e vide Julian in bilico sull’orlo della carrozza, un’altra lama già in mano. Prese la mira, lasciò che il secondo coltello volasse via…
Atterrò sferragliando sul fondo di una carrozza vuota. Il Teuthida, incredibilmente veloce, era sparito. Grazie alla runa dell’udito che le aveva disegnato Julian, Emma riusciva a sentire lui che discendeva la ruota, e il groviglio di barre metalliche che componevano l’interno della giostra.
Rinfoderò Cortana e iniziò a calarsi giù per il raggio a cui era aggrappata, diretta verso il centro. Le luci LED viola e oro le esplodevano intorno.
Aveva le mani sporche di ichor e sangue, e questo rendeva la sua discesa scivolosa. Benché fosse assurdo, la vista lì sopra era bellissima: il mare e la sabbia occupavano tutto lo spazio davanti a lei, come se stesse dondolando giù dal bordo del mondo.
Riusciva a sentire in bocca il sapore del sangue, e del sale. Sotto di lei poteva vedere Julian: era fuori dalla carrozza e si arrampicava su un raggio più in basso. Alzò lo sguardo e indicò qualcosa; Emma seguì la sua mano e vide il Teuthida quasi al centro della ruota.
I tentacoli si stavano stringendo intorno alla struttura, schiacciando il suo cuore. Emma era in grado di sentire i riverberi dentro le sue stesse ossa. Allungò il collo per scoprire cosa stesse facendo, e le si gelò il sangue – il centro della ruota panoramica era un bullone gigante, che teneva la giostra ancorata ai suoi supporti strutturali. Il Teuthida stava strattonando il bullone con l’intenzione di strapparlo. Se ci fosse riuscito, l’intera struttura si sarebbe staccata da ciò che la ancorava a terra e sarebbe rotolata per il molo come la ruota sconnessa di una bicicletta.
Emma non si illudeva che qualcuno sulla giostra, o nei suoi paraggi, sarebbe sopravvissuto. La ruota panoramica si sarebbe accartocciata su se stessa e poi sarebbe collassata, schiacciando tutte le persone al di sotto. I demoni si cibavano della distruzione, dell’energia della morte. Il Teuthida avrebbe fatto un banchetto.
La ruota panoramica oscillò. Il demone aveva i tentacoli stretti intorno al bullone di ferro e lo stava ruotando. Emma raddoppiò la sua velocità, ma era troppo distante dal centro. Julian era più vicino, ma lei sapeva benissimo quali armi avesse con sé: due coltelli già lanciati e delle spade angeliche, che erano troppo corte per permettergli di colpire il demone.
Alzò lo sguardo e la guardò mentre, allungato sulla barra di ferro, si ancorava ad essa con il braccio sinistro e tendeva l’altro verso di lei.
Emma seppe immediatamente e senza doverci riflettere cosa stava pensando Julian. Fece un respiro profondo e lasciò andare il suo appiglio.
Cadde verso di lui, allungando la propria mano per raggiungere la sua. Si aggrapparono ed Emma lo sentì sussultare mentre accoglieva il suo peso. Dondolò in avanti e poi verso il basso, la mano sinistra ancorata alla destra di Julian, e con le dita libere sfoderò Cortana. Il peso della sua caduta la spinse in avanti, dirigendola verso il centro della ruota.
Il Teuthida alzò la testa mentre Emma gli piombava addosso, e per la prima volta lei vide gli occhi del demone – erano ovali, con una patina protettiva riflettente che li ricopriva. Sembrò quasi che si allargassero come fanno quelli umani mentre lo colpiva con Cortana, affondando la spada nella testa del demone e poi attraverso il suo cervello.
I suoi tentacoli cedettero – un ultimo spasmo mentre il suo corpo scivolava via dalla lama e piombava al suolo sbattendo lungo i raggi della ruota. Raggiunse il fondo e rotolò via.
A Emma parve di sentire schizzi d’acqua in lontananza. Ma non c’era tempo per pensarci. Julian le stava stringendo la mano e la stava tirando su. Rinfoderò Cortana mentre lui la sollevava sul raggio su cui era steso, e così gli collassò parzialmente e goffamente addosso.
Julian le stava ancora tenendo la mano, respirando affannosamente. Il suo sguardo incontrò quello di Emma, solo per un secondo. Attorno a loro la ruota girava, portandoli giù verso il terreno. Emma riusciva a vedere la folla di mondani sulla spiaggia, il luccichio dell’acqua lungo la riva e addirittura una testa scura e una chiara che potevano essere Mark e Cristina…
“Buon lavoro di squadra,” disse alla fine Julian.
“Lo so,” rispose Emma. E lo sapeva davvero. Era questa la cosa peggiore: che lui avesse ragione, che loro due lavorassero ancora alla perfezione come parabatai. Come compagni di battaglia. Come una coppia di soldati che non sarebbero mai, mai potuti essere separati.

*

Mark e Cristina li stavano aspettando sotto il pontile. Mark si era tolto le scarpe ed era parzialmente entrato in acqua. Cristina stava riponendo il suo coltello a farfalla. Ai suoi piedi c’era una macchia di sabbia melmosa che si stava asciugando.
“Avete visto la cosa-calamaro cadere dalla ruota?” chiese Emma mentre lei e Julian raggiungevano gli altri.
Cristina annuì. “È caduto nell’acqua bassa. Non era completamente morto, quindi Mark l’ha riportato a riva e l’abbiamo finito.” Diede un calcio alla sabbia di fronte a lei. “Era parecchio disgustoso, e Mark si è coperto di melma.”
“Anch’io ho dell’ichor addosso,” disse Emma guardandosi l’equipaggiamento  macchiato. “Era davvero un demone incasinato.”
“Sei comunque bellissima,” commentò Mark con un sorriso galante.
Emma gli sorrise in risposta, per quanto le riuscisse. Era incredibilmente grata a Mark, che stava recitando la sua parte senza lamentarsi, sebbene dovesse per forza trovarlo strano. Secondo Cristina, Mark stava ricavando qualcosa da tutta quella faccenda, ma Emma non riusciva ad immaginare cosa. Non è che a Mark piacesse mentire – aveva passato così tanti anni tra le fate, incapaci di dire bugie, da trovarlo innaturale.
Julian si era allontanato e parlava sottovoce al telefono. Mark uscì dall’acqua e infilò i piedi bagnati negli stivali. Né lui né Cristina erano completamente incantati, ed Emma notò gli sguardi dei passanti mondani mentre lui le si avvicinava – perché era alto, e bello, e perché aveva degli occhi che brillavano più luminosi delle luci della ruota panoramica. E perché uno dei suoi occhi era blu e l’altro era dorato.
E perché c’era qualcosa, in lui, qualcosa di indefinitamente strano, una traccia del selvaggio delle terre delle fate che non mancava mai di ricordare a Emma spazi immensi privi di ostacoli, libertà e assenza di regole. Sono un ragazzo sperduto, sembravano dire i suoi occhi.Trovami.
Raggiunta Emma, alzò la mano per scostarle una ciocca di capelli. Un’onda di sentimenti la attraversò – tristezza ed esaltazione, il desiderio di qualcosa, sebbene non sapesse cosa.
“Era Diana,” disse Julian, e anche senza guardarlo Emma poteva immaginare l’espressone sul suo volto – serietà, premura, un’attenta considerazione di qualsiasi fosse la situazione. “Jace e Clary sono arrivati con un messaggio dal Console. Stanno tenendo una riunione all’Istituto, e ci vogliono lì ora.”

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 09, 2016 ⏰

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