L'uccello che saluta

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I quadri sembrano guardarmi. In buona parte rappresentano giganti fatti di roccia e metallo che accarezzano e accudiscono bimbe o dolci vergini. Il pubblico crede che quei giganti siano qualche strana rappresentazione di mio padre. Vanno in visibilio a ragionare sui parenti della gente famosa. La figlia del grande pugile professionista che sfoga la sua frustrazione, i suoi desideri di attenzioni mancate da parte del padre, dipingendo giganti buoni. Qualcuno ha addirittura azzardato che fosse un qualche indizio riguardante il complesso di Elettra.

Mi sciacquo la faccia nel lavandino bianco, nel bagno grigio tappezzato di quadri. 

In realtà si sbagliano tutti. 

Quei colossi rappresentavano mio zio, il fratello di mio padre. Quello disabile, grasso, che sbrodolava ma tramite i pulsanti del suo computer mi diceva sempre che ero bellissima.

Poi è morto.

Guardo il mio riflesso nello specchio, lo sguardo è ricambiato da una ragazzina dai capelli rossi che ormai sembrano grigi, piena di lentiggini, con occhiaie spaventose e lo sguardo stanco. Sono io.

Sembro una ragazzina di sedici anni, ma ne ho ventiquattro. Il punto è che sono troppo esile, ho il viso troppo dolce, da bambola.

Si dice che il modo migliore per uccidere una persona è versargli un goccio di detersivo nel cibo ogni giorno. Dopo qualche anno lui muore e sembra perfettamente naturale. 

Secondo me è stata mia zia, la sorella di mio padre, la sorella del mio zio disabile e malato da più di cinquant’anni, stanca di sopportarlo e fargli da balia.

Poggio la matita su una tela, pronta a partire in un nuovo viaggio, un trip mentale. Posso partorire tutti i mondi che voglio, ricordi legati a giganti buoni, Golem ricoperti di muschio e polvere che accarezzano cerbiatti e fanciulle. Al telefono parlo con mia zia, le dico che questa mattina un uccello mi ha salutato. Lei ride, accondiscendente, e mi dice che forse vuole diventare mio amico. Ma magari. Ma mi dice anche di non farlo mai entrare in casa perché porta batteri, germi e malattie. Ci mancherebbe.

Due giorni dopo, sempre alle cinque meno uno, un uccello mi sveglia e mi saluta. Il verso è inconfondibile. Ma appena apro gli occhi quella fulgida macchia nera si libra in volo e se ne va. Ignoro il momento e torno alle mie opere d’arte, sperando che prendano valore un giorno.

Si dice che per ammazzare una persona basta privarlo della vita sociale. Se non interagisce con qualcuno non sta vivendo, solo esistendo. Un’altra pennellata scorre sulla tela, lasciando grumi doppi di grigio. 

Due giorni dopo, sempre alle cinque meno uno, un uccello mi sveglia e mi saluta. Sono stanca e incuriosita. Non è più un caso. La prima volta può esserlo, anche la seconda. Ma la terza no. Ma non posso fare niente una volta che se ne va. Passo le giornate a pensare in che modo interagire con l’uccello mentre dipingo. E intanto mi firmo, “Eva”.

Provo a cambiare stanza, provo a dormire per terra tra i dipinti e la pittura. Sul pavimento freddo e bianco, uso il mio braccio destro come cuscino, il sinistro come coperta. Sono scomoda e l’odore pungente e acido dei colori a olio mi tengono sveglia. E non va bene, zio dice che a mezzanotte in punto dovevo dormire assolutamente. Fa parte della mia routine. Stringo le mie gambe nude e bianche.  E alle cinque meno uno un uccello mi saluta dalla finestra della stanza del lavoro. Quella piccola finestrella quadrata in alto, all’apice del muro lungo più di quattro metri, che ritaglia un pezzo di sole pallido e me lo dona. Questa volta ritaglia anche la sagoma dell’uccello per qualche secondo, poi se ne va. Resta quel riquadro che mi mostra cosa c’è sopra il tetto: un cielo infinitamente grigio, senza uno sprazzo di sole o nuvole. Solo grigiore liscio e deprimente. 

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