Capitolo 2.

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A volte, quando ero più piccola mi capitava di chiedermi se una cosa fosse realmente successa o meno.
Non era amnesia o memoria corta, e nemmeno stupore, semplicemente quando mi fermavo a pensare mi chiedevo "ma è successo davvero o me lo sogno sognato?". La risposta non l'ho mai avuta, ma talvolta mi è capitato anche di avere a che fare con i falsi ricordi. Avvenimenti che credi siano successi davvero che a causa di fattori esterni o interni hai impressi nella mente, come se fossero ricordi veri e spesso anche curati nel dettaglio e molto articolati. Non lo sono, ma tu ne sei convinto, e fino a prova contraria sono pur sempre ricordi.
In ogni caso, era proprio ciò che stava succedendo, o almeno, ci speravo.
«Non può essere vero. Non può stare succedendo proprio a me, sto sognando. Sto decisamente sognando.» Mormorai mentre il battito del mio cuore accelerava notevolmente.
Davanti a me si stava svolgendo una scena atroce, una scena che non avrei mai voluto guardare, ma che per uno strano motivo mi trovai bloccata ad osservare.
Sembrava uno spettacolo, con mille luci di colori diversi che lampeggiavano nel cielo scuro della notte. Uno spettacolo dolce e macabro al contempo, che purtroppo però, mi vedeva protagonista.
Quando le luci si affievolirono mi concentrai sugli altri sensi. O meglio, sull'altro unico senso che potevo usare in quel caso, oltre la vista: l'udito.
Inizialmente, avevo come l'impressione che ogni suono arrivasse a me ovattato e ripetuto, proprio come in un sogno. Sembrava stesse accadendo tutto lontano da me, ma mi trovavo solo a pochi metri di distanza.
Abbassai lo sguardo sui miei piedi. Non indossavo le scarpe, erano nudi sui rametti e sulla ghiaia, e sebbene fosse notte inoltrata non provavo freddo, il che era strano.
Guardai il paesaggio intorno a me: c'erano solo montagne e boschi. E una lunga strada a due corsie che si perdeva all'orizzonte, attorniata da alberi.
Tornai alla realtà quando sentii il grido addolorato di una donna che mi fece gelare il sangue nelle vene, così, non appena trovai il coraggio necessario, corsi verso la scena alla quale stavo assistendo per una ragione che non riuscivo a ricordare.
Le arrivai davanti. Aveva le mani davanti al viso bagnato dalle lacrime e sembrava stesse soffrendo davvero tanto. Accanto a lei, con un braccio avvinghiato attorno alla sua vita, c'era un uomo, anch'egli in lacrime.
«Mamma! Papà! Perché piangete? Che succede?» Chiesi scuotendo le braccia davanti a loro, cercando di farmi notare ma invano.
«Mamma! Papà! Sono qui!» Urlai più forte. Mi sentivo invisibile.
Sospirai, magari non volevano parlarmi  e perdere tempo con me quando avevano ben cose più importanti a cui pensare.
Mi girai, scorgendo Cameron, il mio migliore amico, seduto su una barella con un collarino e dei graffi sul viso e sulle braccia. Dei medici gli stavano facendo delle domande e lui si stava massaggiando la spalla destra, probabilmente dolorante. Ciò che non capii fu perché anche lui stesse piangendo.
«Cameron!» Lo chiamai avvicinandomi. «Cos'è successo? Hai fatto un'incidente? Stai bene? Oddio, meno male che stai bene...» Mormorai poi, corrucciando le sopracciglia in un'espressione compassionevole e appoggiando la mia mano sulla sua, seguendola con lo sguardo.
E fu proprio lì che il mio cuore perse un battito. Fu come se avesse fatto un balzo e poi si fosse fermato improvvisamente.
Ci riprovai, ma niente. La mia mano non era appoggiata sulla sua. La mia mano l'aveva attraversata, appoggiandosi direttamente sul materassino della barella.
«Non può essere.» Mi ripetei, provando a pizzicarmi la gamba. Non percepii il dolore ma non mi svegliai neanche.
Quando Cameron alzò la testa e iniziò a singhiozzare ancora più rumorosamente capii che girarmi e guardare sarebbe stata l'idea più brutta che avessi mai potuto avere, ma lo feci lo stesso.
E ciò che vidi mi distrusse.
Altri dottori stavano portando una barella, avevano tutti un'aria distrutta e solenne.
Sulla barella c'ero io.
Non riuscii neanche a coprirmi gli occhi con le mani, probabilmente per lo shock.
Il mio corpo pallido giaceva esanime su quella barella all'apparenza scomodissima. Avevo addosso dei vestiti leggeri, ridotti a brandelli dai pezzi di parabrezza e il mio braccio destro pendeva dal lettino. Ogni singolo centimetro del mio corpo sembrava martoriato dalle schegge del vetro e il mio viso era irriconoscibile, il tutto coperto dal sangue che non aveva smesso di uscire.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e la gola iniziò a bruciarmi come non aveva mai fatto.
Volevo urlare, gridare che dovevano fare qualcosa, che non poteva realmente accadere,ma non mi avrebbero sentito ugualmente.
E fu in quel momento che realizzai che in realtà non mi sentivo invisibile; io ero invisibile.
Corsi verso il mio corpo pregando i dottori perché si fermassero e facessero qualcosa, cercando di attirare la loro attenzione, ma senza riuscirci. Quando si fermarono rimasi un momento a guardare me stessa. Avevo sempre desiderato sapere cosa vedessero gli altri quando mi guardavano, avere un opinione concreta di come esattamente fossi, ma adesso preferivo non averlo mai scoperto.
I miei capelli erano stesi sul lettino, incrostati di sangue e con dei pezzi di vetro ancora incastrati.
Allungai una mano e cercai di appoggiarla su quella della me stesa sul lettino ma la oltrepassò. Ci riprovai un'altra volta, ma ancora niente. Andai avanti così per un po', fino a quando non scorsi un dottore parlare con i miei genitori.
Mi salì di nuovo un groppo in gola. Emisi un lungo sospiro e mi diressi verso di loro, a passo lento ed insicuro.
«Ci dispiace.» Sospirò l'uomo con indosso una di quelle tute arancione fosforescente, andandosene.
«No!» Provai ad urlare, ma la mia voce uscì più come un sibilo silenzioso.
Una parte di me voleva gridare, piangere, sfogarsi, ma non ci riuscivo. Per un qualche motivo, come spesso succedeva quando stavo male, mi ero spenta. Per cui mi limitai a fissare il vuoto, chiedendomi se sarebbe mai finito tutto questo.
I medici avevano ormai caricato il mio corpo su un'ulteriore barella e si stavano allontanando, ed io ero lì, ferma a guardarli impotente, senza fare nulla.
«Vi prego, dovete fare qualcosa! Per favore!» Urlai un'altra volta nel vano tentativo di essere notata, ma era come gridare sott'acqua, nessuno ti sente e più urli, più ti allaghi dentro.
E in quel momento mi accorsi quanto fosse preziosa la vita.
Non avrei mai pensato una cosa simile in circostanze diverse, ma in quel momento era così. È triste come ci si accorga dell'importanza delle cose dopo averle perse, eppure è la verità.
Siamo così fragili, una singola e minima cosa potrebbe spezzarci oppure renderci più forti.
In ogni caso, non era giusto. Niente di ciò che era successo e stava succedendo era giusto. Avrei dovuto salutare tutte le persone che avevo mai amato, per un incidente avvenuto senza dinamica. Non era giusto, ma era reale.
Ed io ero morta.

Heaven;  Bradley SimpsonWhere stories live. Discover now