La logora valigia di cartone era già sull'uscio di
casa; al suo interno un paio di calzoni, due camicie
e qualche cambio di intimo. L'indispensabile, e
nulla più.
Vincenzo teneva tra le dita il biglietto della corriera
che lo avrebbe accompagnato alla stazione di Cassino
per prendere il treno.
Il volto teso, le mani tremanti, i pensieri altrove.
Filomena non spiccicava una parola; da due settimane
a quella parte non aveva parlato molto. Solo la sera,
con gli occhi rivolti al cielo – mentre sperava di vedere
la mamma affacciarsi tra le stelle, accompagnata dagli
angeli, come le aveva detto il padre –, la si poteva udire
rivolgerle una preghiera, un saluto.
Invece lui, non solo aveva taciuto la verità, ma adesso
se ne andava lontano, in Francia, e lei non sapeva
dove si trovasse questo posto che avrebbe dato un lavoro
al padre.
Se ne stava lì, con la testa bassa, stretta nei vestitini
dismessi dalle cugine più grandi. Attorcigliava le manine
perché, di nuovo, sentiva quella sensazione a cui
non sapeva dare un nome, la stessa che aveva avverti
to quando il Dott. Di Giacomo era comparso in cucina,
ingobbito dalla stanchezza.
Vincenzo aveva provato, nei giorni precedenti, a combattere
i sensi di colpa che provava verso la bambina.
Ma alla fine si era convinto: con i nonni sarebbe stata
bene e cresciuta con affetto. Lui i genitori non li aveva
più ed era troppo giovane per marcire in quel paese
che diventava sempre più povero. Andava all'estero,
ma lo faceva anche per la figlia.
Le avrebbe scritto e spedito dei soldi, così la sua coscienza
sarebbe stata in pace con Dio.
Nonna Caterina spinse la piccola verso Vincenzo:
«Avanti, saluta il babbo e non fare il broncio, ogni tanto
verrà a trovarti».
Lei si alzò, timidamente, sulle punte e gli offrì la guancia.
Il padre la baciò con un gesto meccanico, con gli occhi
già puntati sull'orologio per non rischiare di perdere
il treno. Afferrò il bagaglio, salutò in fretta bimba e
suoceri e si volatilizzò, girando l'angolo, per scomparire
dalla vista della piccola che si aggrappò alla ruvida
mano della nonna.
***
Ottobre arrivò in fretta e, con esso, il primo giorno di
scuola.
Quando la campanella suonava per annunciare l'inizio
della prima ora, nella casa adibita all'uso scolastico,
Filomena donava un sorriso a ogni bambino che,
passando, la urtava. Quel vociare, quelle risate divertite,
erano musica per le sue orecchie.
Ma quando anche lei cominciò a saggiare la bacchetta
del maestro, sempre arrabbiato, l'entusiasmo si spense
con la stessa rapidità di un fuoco d'artificio lanciato
nel cielo. E ne aveva visti pochi, forse una sola volta,
nella sua breve vita di bambina.
Nel primo governo Mussolini, il ministro della Pubblica
Istruzione, Giovanni Gentile, si era affannato a
riformare la scuola che doveva essere uguale per tutti.
L'obbligo agli studi fu prolungato fino ai quattordici
anni d'età ma, di fatto, rimase lettera morta per la stragrande
maggioranza dei ragazzi, le cui famiglie non
avevano possibilità economiche per consentire l'istruzione
o avevano bisogno della loro giovane energia
per portare a casa il pane.
A Filomena, la nonna aveva detto che ormai era grande
e che l'avrebbe fatta studiare, tirando la cinta, solo
se il pomeriggio avesse portato a pascolare le pecore
del signor Anselmi. D'altronde Mario e Caterina erano
vecchi e acciaccati, la mamma era morta e il padre
lavorava all'estero; chi, se non lei, doveva contribuire
a portare qualche soldo in casa? Se il signor Anselmi
si fosse trovato in difficoltà, anche un pezzo di carne
per fare il bollito e un po' di viveri per la dispensa sarebbero
andati bene.
Negli otto mesi trascorsi dalla sua partenza, Vincenzo
fece avere sue notizie solo tre volte. Essendo analfabeta,
aveva chiesto aiuto a un suo amico francese di origine
italiana per scrivere a casa ma, disse, non avrebbe
voluto disturbarlo troppo frequentemente.
L'ultima volta aveva anche mandato qualche soldo,
dicendo che lavorava come muratore ed era ospitato
in casa di una donna, conosciuta poco dopo il suo arrivo.
Nonna Caterina si era rivolta all'unica persona fidata
che sapeva leggere, affinché la aiutasse a capire quegli
scritti: il maestro di Filomena. Presente a quei radi
incontri, la bimba aveva ben presto capito che alcune
frasi venivano omesse, per l'evidente imbarazzo del
maestro e perché, una volta conclusa la lettera, questi
aveva chiamato in disparte l'anziana.
Tuttavia, una volta giunte a casa, la piccola si mise
a origliare da dietro la porta accostata, ascoltando le
dure parole della donna:
«Si è già accompagnato con una francese! Ha scritto di
rado e a Filomena non ha mandato che qualche spicciolo...».
Nonno Mario sospirò:
«È giovane! Temo che si costruirà una nuova famiglia,
speriamo solo non si dimentichi di sua figlia».
Ormai, Filomena, di pratica con il dolore ne aveva fatta
tanta e questa volta lo riconobbe subito nel suo cuore.
Si sentì abbandonata per la terza volta, nonostante
avesse solo sei anni!
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Come fiori tra le macerie- Capponi Editore
Historical FictionUn romanzo dal profumo dolce e amaro del passato, quando l'amore sapeva di zucchero e cannella, di fiele e polvere, in un'Italia semplice e genuina, in un paese sotterrato da un governo avventato e sprovveduto. In questo scenario Filomena conduce co...