Chapter two _ what the hell do you want?

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Chapter two
What the hell do you want?


Come volevasi dimostrare, sono arrivata tardi a lezione. Anzi, tardissimo. La vista di quel ragazzo, così particolare ai miei occhi ma che sembra non aver notato nessuno mi ha scombussolata, e non poco.
Credo di essere rimasta imbambolata a fissare le rotaie per un paio di minuti buoni, prima di riprendermi e cominciare a correre verso l'uscita dell'underground e, finalmente, verso la scuola.
Oramai è tardi per entrare e frequentare la prima ora, così preferisco rimanere fuori, e girare l'angolo del palazzo dove ha sede la mia scuola, dirigendomi verso lo starbucks li vicino e fare una vera colazione, così da poter almeno seguire decentemente le ore di lezione rimanenti. Fortunatamente, non ho saltato il test di matematica, quello comincerà tra tre ore.
Dopo aver ordinato un "caramel macchiato" large, ed aver pagato anche un paio di biscotti, mi siedo su una delle poltrone accanto ai grandi muri a vetro, e guardo la mia adorata Londra. La osservo come se fossi esterna al mondo, come se non stessi partecipando alla vita che sta svolgendosi sotto i miei occhi, proprio in questo istante, a due passi da me. Sorseggiando la mia bevanda calda, mi perdo come sempre nei miei pensieri, osservando distrattamente quella vita che ho avuto la possibilità di scegliere, ma che non sento ancora del tutto mia. Come se mancasse qualcosa. E ad un tratto, lo vedo. Di nuovo.
Il ragazzo di stamattina è proprio li, la schiena appoggiata al palazzo di fronte al mio, al di là della strada. Probabilmente crede che io non lo abbia visto, perché è distante e perché è sceso almeno una fermata dopo la mia, ed è già passata più di mezz'ora da quando l'ho visto su quel treno. In genere, i volti delle persone che non c'interessano, si dimenticano anche in meno, ma quel ragazzo particolare non avrei mai potuto scordarlo, neanche volendo.
Non si è ancora accorto che l'ho visto, quindi mi prendo il mio tempo, il volto affondato nel bicchiere, per analizzarlo, così come ho sempre fatto. È un bel ragazzo, alto, dai capelli di neve e gli occhi di ghiaccio. Potrebbe chiamarsi Aidan. O Aaron. Per quel poco che ho potuto vedere, non è un ragazzo sorridente. E per quel poco che ho potuto leggere nelle sue iridi, è estremamente triste. E solo. Magari è orfano. O è fuggito di casa. Di certo nessuno lo sta aspettando, o non sarebbe qui. Non ha uno zaino sulle spalle, quindi non studia. L'unica cosa che non riesco davvero a spiegarmi è il perché stia seguendo proprio me.
Insomma, non ho nulla di interessante, io.
A parte i capelli blu, ed il rossetto viola, non sono certo il tipo che ti lascia a bocca aperta e che vorresti osservare. O pedinare, in questo caso.
Quando torno a guardare l'orologio, mi accorgo che se non mi alzo di qui entro i prossimi tre secondi, farò tardi di nuovo. Quindi mi alzo, tornando ad afferrare il mio zaino, il caffè ancora in mano, ed esco. E solo in quel momento mi rendo conto che, invece, quel ragazzo si è accorto benissimo che lo stavo osservando. Si è accorto perfettamente che l'ho notato, perché non tenta nemmeno più di nascondersi da me. Semplicemente si stacca dal muro e comincia a camminarmi dietro, a testa bassa e con le cuffiette nelle orecchie, il cappuccio della felpa che indossa tirato su a coprire i capelli. Senza rendermene nemmeno conto, arrivo a scuola, ed entro dentro il palazzo, stringendomi nelle spalle quando un gruppo di ragazzi comincia a fissarmi. Il ragazzo dai capelli bianchi non è più dietro di me, e quando entro in aula lo sguardo perforante che mi lancia la professoressa di inglese mi fa chinare ancora di più la testa. Sembra proprio che oggi io non riesca a farne una giusta. In silenzio, vado a sedermi al mio posto, accanto ad una ragazza carina, silenziosa e studiosa che, probabilmente per pena, mi allunga le quattro pagine fitte di appunti che ha preso in quell'ora. Le mimo un grazie con le labbra prima di lasciarle scivolare in unna bustina trasparente portadocumenti, accingendomi a seguire in silenzio la lezione.
Per l'ennesima volta in quella giornata, sento uno sguardo penetrante perforarmi la schiena, ma stavolta non ho bisogno di alzare lo sguardo per sapere con certezza che quel ragazzo è li, proprio fuori dalla finestra della mia classe, appoggiato all'albero che di solito fisso quando la mia mente comincia a vagare in luoghi sconosciuti nel bel mezzo di una lezione. Non ho bisogno di alzare lo sguardo per sapere con certezza che lui mi sta fissando, le cuffie ancora nelle orecchie che probabilmente non stanno riproducendo alcuna canzone, ma fanno solo scena. Non ho bisogno di alzare lo sguardo per nessuna delle sei ore di scuola, neanche per l'ora e mezza del test di matematica, per sapere che non si è mosso neanche per un secondo da quella posizione, e che ancora mi sta fissando, in attesa. Di cosa, però, lo sa solo lui.
La testa ha cominciato a farmi male non appena il professore ha consegnato i fogli del compito, ma la colpa sarà di sicuro stata di tutti quei numeri stampati e quelle lettere che, maledizione, perché dovevano decidere proprio di mischiarsi con i numeri?
Ogni volta che cercavo di pensare, le voci di tutti i miei compagni di classe mi assalivano la mente, sparando numeri a caso per risolvere equazioni diverse. Per la prima mezz'ora, non sono stata in grado di riflettere. Stavo per avere una crisi isterica, proprio nel bel mezzo del compito, quando una voce, profonda, melodica, ha sovrastato tutte le altre, risolvendo le equazioni nella mia testa.
Per un paio di folli momenti, ho anche pensato che quella voce fosse del ragazzo.
Ma poi mi sono data dell'idiota, ed ho continuato a scrivere.
Sto uscendo da questo inferno in terra proprio ora, e la testa mi sta davvero esplodendo. Il mio cervello è riempito da un costante brusio, sono tre ore che lo sento, come se mille persone stessero parlando tutte insieme nella mia testa, ognuna di un argomento diverso, ognuna per conto proprio.
Continuo a dare la colpa al test di matematica, ma ogni secondo quella scusa sembra più banale.
Non credo di riuscire a sopportare quel rumore ancora per molto, quindi mi infilo le cuffie, e scendo in metro, avviando la riproduzione casuale del mio telefono, che fa immediatamente cessare tutta quella confusione nella mia testa, rendendomi libera di pensare.
I miei occhi, stanchi, si chiudono quasi di riflesso in quell'attimo di pace, e in poco tempo mi addormento.
Vengo svegliata da qualcuno che mi strattona, non molto gentilmente, e, non appena apro gli occhi, mi trascina giù dal treno. Ci metto qualche secondo per realizzare chi mi abbia svegliato e trascinato come se fossi un sacco. Sempre lui. Ancora lui.
- Si può sapere cosa vuoi da me?
gli urlo contro togliendomi le cuffie, ed immediatamente la confusione nella mia testa ricomincia, e questa volta sembra mille volte più amplificata. Istintivamente mi porto le mani alle orecchie per coprirle, e vedo gli occhi del ragazzo illuminarsi di soddisfazione e le sue labbra tendersi in un sorriso. Quel maledetto sta ridendo di me!
- Non posso spiegartelo, dolcezza. Non ora.
Di nuovo quella voce, che sembra sempre smorzare tutte le altre, e poi il ragazzo si allontana, dandomi le spalle, le mani nelle tasche dei Jeans slavati. Ed è solo mentre se ne sta andando, che la noto: una tigre bianca, dal manto candido come i capelli del suo padrone, gli passeggia accanto, muovendo sinuosamente la coda. Terrorizzata, un grido mi sfugge dalle labbra, ma nessuno sembra vedere, nessuno sembra accorgersene. Solo lui se ne rende conto, di nuovo, quindi si gira a guardarmi, la sua tigre con lui, come se fossero un'unica essenza, e mi fa segno di stare zitta, strizzando poi un occhio e tornando a camminare come se nulla fosse, le persone intorno a me che credono io sia matta. Qualcuno mi scuote, chiedendomi se è tutto ok, ed improvvisamente il mal di testa ritorna, costringendomi a mormorare delle scuse in fretta e furia e correre via, nella mia mente voci di sconosciuti che strillanlo "bah" ; "è pazza" ; "cosa si poteva pretendere da una con quei capelli".

In poco tempo arrivo a casa, le mani premute con forza nelle orecchie, ed entro, scivolando seduta a terra, la schiena contro la porta di casa. Le voci nella mia testa si sono attenuate, ma ora posso distinguere chiaramente la voce di mia madre, che sta elencando gli ingredienti per la ricetta che sta preparando, quella di mia sorella, che sta leggendo un manga che io ho già letto, e quella di mio fratello.
Non riesco a capire, non ci arrivo, la razionalità d'un tratto sembra essere venuta meno, lasciando un vuoto sotto i miei piedi.
E in quel momento, in cui mi sembra star soffocando, la mia voce esce fuori da sola, e la sento così lontana, così distante da me, che pronuncia le uniche parole che mi sembrano avere un senso in questo momento:
- Mamma, ho bisogno di parlarti.

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