Attraversò quella sorta di piazzetta, che altro non era se non una rotonda cittadina, di quelle dove ancora resistono le basole. I passi continuarono il loro sordo fluire, sospeso come prima. Gli occhi ricominciarono a guardare intorno.
Paolo cominciò a sentirsi orrendamente solo, un pensiero stava per raggiungerlo quando inciampò in qualcosa. Un triciclo lasciato lì in strada, tutto di plastica, un po' ammaccato e con una delle ruote posteriori sfondata. Ne aveva regalato uno dello stesso colore al figlio.
I ricordi cominciarono ad accavallarsi: le labbra del figlio che si allargavano, incurvandosi sotto le guance rotonde e gli occhi che brillavano alla vista del gioco nuovo; quelle gambe, che cresciute non stavano più sui pedali ma che continuavano a stringere il triciclo; l'urlo di spavento e le grida, quella volta che col triciclo il piccolo cadde sugli scalini di casa e quell'urlo secco, incisivo e penetrante, che gli salì fulmineo nella schiena. Continuava a ripetersi, non l'immagine, ma il suono ed il fastidio di quell'urlo. Si portò una mano al mento e sentì una fitta improvvisa all'articolazione della mandibola. Si fermò, posò la bottiglia d'acqua e il sacchetto a terra e si strinse forte le tempie. Era insopportabile quel dolore, penetrava quasi come se gli scavasse il cranio. Aprì la bocca cominciando a fare smorfie col viso e a poco a poco il dolore sembrò scomparire, ma sentì subito il palato tremendamente secco e le labbra quasi spezzarsi. Aveva bisogno di bere, raccolse la bottiglina d'acqua, tolse il tappo e butto giù un sorso.
Quando staccò le labbra dalla bottiglia, riprese fiato in modo affannoso e stanco, come se fosse scappato via da qual cosa. Non capiva cosa stesse succedendo e decise di sedersi prima di sentirsi mancare. Si guardò allora intorno e vide delle panchine.Sedutosi aprì il sacchetto e tirò fuori uno dei calzoni, ormai nuovamente freddi. Masticando ed inghiottendo, sentiva che tutto il corpo si rilassava e il respiro si faceva più regolare. Mentre riacquistava lucidità la sua attenzione si spostò dall'interno all'esterno e guardandosi attorno si rese conto d'essersi fermato a poca distanza dall'anfiteatro romano. V'era passato davanti in macchina molte volte. In quel momento non poté che accennare un sorriso per l'ironia di non aver ora alcun motivo di correr via. Si alzò dalla panchina e si diresse verso quell'antico scheletro.
Vi era un piccolo cancelletto chiuso, ma in quel periodo entrare di nascosto era decisamente semplice. Portatosi dentro attraversò le arcate ed entrò in quella che un tempo era l'arena. Voltandosi guardava quelle rovine dal loro interno e nel silenzio della notte gli parve che quei mattoni risuonassero all'unisono col battito nel suo petto. Chiuse gli occhi un istante solo, prima di scoppiare a piangere, i nervi erano ormai distrutti e la sua resistenza s'era esaurita. Lacrime d'un pianto liberatorio gli solcarono il volto e come le lacrime anche il suo corpo si lasciò cadere. Si portò le mani al volto e rannicchiato sull'erba continuò a piangere.
D'un tratto una voce gli urlò contro «Chi c'è? Chi c'è lì?». Voltatosi vide delle luci muoversi freneticamente e due uomini che gli si avvicinavano. S'alzò e cominciò a correre nel senso opposto. Si infilò sotto le gradinate e scese nei sotterranei, ma quegli uomini lo rincorsero, scendendo anch'essi. La fuga non fu lunga, terminò di fronte ad un cancelletto che dava all'esterno degli spalti, ma un pesante lucchetto ne impediva l'apertura.
Quando fu raggiunto dai guardiani stava ancora strattonando il cancello. «Ehi chi sei? Chi sei?» continuò a chiedere la voce di prima. Paolo si voltò e si pose una mano davanti alla fronte per ripararsi gli occhi dalla luce delle torce. Allungò la mano in aria davanti al volto, ma non riusciva a distinguere le due figure. Allora alzò gli occhi, attraverso un arco che aveva ancora parte del rivestimento in marmo, vide brillare più forte delle altre una stella. Tutto in un attimo. «Chi sei?» continuava imperterrita la voce e lui dentro ripeteva "Chi sei?''. Cercò un nome, l'unica risposta sensata, il suo nome, ma quel nome che tante volte era stato pronunciato, incastonato tra titoli d'una qualche valenza, ora non riaffiorava più."Chi sei? Chi eri?" continuava a pensare, mentre guardava quella stella, quando le sue labbra si piegarono in una smorfia e abbassato lo sguardo, deposta la mano, disse «Un uomo».
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Per aspera sic itur ad astra
Short StoryUn racconto pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 3/2013, nella collana "Racconti contro la precarietà".