King Arthur.

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«Desidero solo un regno in cui possano albergare giustizia e pace. Voglio portare la Bretagna al suo massimo splendore.»

Riecheggiano nella mente quelle parole; insistenti, distanti e speranzose come i caldi raggi del Sole dopo una violenta tempesta.
Oh! Com'è gioiosa quell'immagine di un giovane ragazzo che punta verso il cielo la propria spada con l'orgoglio di un Re promettente, un Re che ripone massima fiducia nel futuro del suo regno! Guardateli, i suoi occhi, ricolmi di convinzioni e desideri, brillanti di una deliziosa ingenuità giovanile e rara forza d'animo.
Il popolo lo acclama, festeggia la sua incoronazione con incentivata speranza e si inchina al suo cospetto con reverenza e solennità.
Il principe perduto tornato a casa, aveva finalmente trovato il cammino che Dio aveva prestabilito per lui e sarebbe stato pronto a seguirlo fino alla fine.

«Noi, i cavalieri più coraggiosi e valenti, difenderemo sempre il nome di Dio contro i pagani. Combatteremo i prepotenti, non uccideremo mai senza ragione alcuna e accetteremo solo incarichi nobili e giusti nei confronti del popolo e dei più deboli. Rimarremo puri e nobili nello spirito per servire l'Altissimo e per Lui, e per la Bretagna, cercheremo il Santo Calice finché morte non sopraggiungerà su di noi.
Noi siamo i Cavalieri della Tavola Rotonda!»

Come seguendo un copione, così Artù inconsciamente agiva; percorreva sicuro quel sentiero ai suoi occhi dorato e intriso di onori e glorie senza poterne immaginare la fine.
Un leone dal cuor coraggioso era lui, fiducioso nella lealtà e nel coraggio e ancora ignaro dei mali che affliggevano e tormentavano il mondo, li stessi che, ben presto,avrebbero bussato alla sua porta, maliziosi e viscidi. Quei mali intenti a distruggere la purezza di quella fonte d'acqua limpida albergante negli occhi del sovrano, chiara e cristallina nel suo sguardo di smeraldo.



Ahimè, cosa ne è rimasto, mia fedele compagna, se non lutto e distruzione? A cosa è valso combattere per la costruzione di un'utopia e ritrovarsi con una tragedia in mano?
Col respiro affannato e la vista annebbiata dal dolore, contemplo le rimanenze di ciò che è stato; il dolore avvolge il mio cuore con l'abbraccio freddo della sofferenza e mi rendo finalmente conto, con l'amaro sapore in bocca del sangue e la consapevolezza, che della luce da me ricercata non ne è rimasta che ombra.
Fitta, gelida, inquietante ombra.
E Dio, Altissimo, a Voi mi rivolgo, che t'ho sempre servito con devozione: E' davvero questo il destino di un eroe? Niente è mai cambiato da chi mi ha preceduto e niente mai cambierà in futuro?
Una vita meravigliosa e breve è stata la mia. Rappresentavo ciò che un Re dovrebbe essere, senza mai smettere di lottare per i miei ideali. Sono stato esempio, forza, speranza per chi a me si rivolgesse e non ne ho ottenuto che dolore.
Osservo i cadaveri dei miei compagni, morti per servire la nobile causa per la quale avevano giurato la loro stessa vita e mi chiedo, sì mi chiedo, se sia stata colpa mia. Poi ripenso, rifletto, nel delirio precedente alla morte, a quello stesso cammino da Te affidatomi e mi convinco del Destino impermutabile a cui non posso far altro che sottostare.
Un eroe non è quel che sembra, lo comprendo adesso. Può donare luce agli altri, ed è quello che ho fatto, ma non può avere luce nella sua vita.
Per questo a me è toccato così tanto dolore, per questo anche coloro che avevano solo deciso di rimanere al mio fianco e servirmi, hanno dovuto perire le mie stesse pene.
Cielo! Com'è tragico, com'è buffo tutto questo. Ricorda le tragedie che studiai in giovinezza, che lessi con la leggerezza di un ragazzetto ingenuo convinto che ciò che raccontassero quelle parole d'inchiostro non lo avrebbero mai rappresentato, né paragonato ad uno di quei guerrieri di cui le gesta narravano.
Ed ancora una volta mi sorprendo della Vita, losca e furba, che riesce a rendere l'impossibile qualcosa di fattibile e reale. E mi sorprendo anche della verità dei proverbi popolari, saggi e sapienti, che affermavano che solo alla fine una persona comprenderà il senso della sua vita, nelle gioie e nei dolori, quando oramai sarà troppo tardi per poter cambiare il passato o rinnovare il futuro.
«Dama.» Chiedo adesso, consapevole che il sipario stia per calare e che non molto è il tempo a mia disposizione. «Dov'è che mi condurrà la nera gondola?»
E lei accenna un sorriso, come il giorno in cui mi donò la seconda spada, Excalibur anche lei, lasciandomi comprendere che non è ancora il momento per donarmi la pace eterna. Così, l'ultima luce conducente all'aldilà, a cui ero così vicino, mi sfugge dalle mani e prima dell'oblio, un'ultima frase mi è concessa udire: «Avalon. L'isola in cui riposerà in un stato di morte apparente finché non sarà giunto il momento di far ritorno tra i mortali, sire.»

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