2. Guai

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Canzone consigliata per il capitolo:

Love me like you do – Ellie Goulding

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Una volta agghindata e protetta dall'ormai familiare maschera da donna in carriera che ero solita indossare tutte le mattine, arrivai davanti al portone di casa e diedi un'ultima occhiata alla mia figura allo specchio prima di uscire. Aggiustai i capelli biondi nell'acconciatura raccolta sulla nuca, controllai il colletto della camicetta bianca di seta e la sottile cintura che stringeva in vita la gonna aderente e lunga poco sopra al ginocchio; solo alla fine mi lasciai andare in un dolce sorriso osservando la foto del mio matrimonio appesa lì accanto. In quel caldo pomeriggio di giugno di poco più di un anno prima, fuori dalla St. Patrick Cathedral e immersi in una folla di amici e parenti più o meno conosciuti, io e Michael non eravamo riusciti nemmeno per un secondo a restare seri e a mantenere le rigide pose che i fotografi ci imponevano; scoppiavamo a ridere a casaccio senza riuscire a controllarci, e le foto più spontanee dell'album erano infine rimaste le nostre preferite.

Guardai entrambi i nostri sguardi felici catturati dall'obbiettivo e sorrisi ancora di più: Michael era di certo un uomo affascinante e il sogno proibito di molte donne, ma anche io dovevo ammettere di essere un gran bel bocconcino che non aveva nulla da invidiargli. La sicurezza di me, dopotutto, era una dote che avevo coltivato e conservato fin dalla più tenera età. Sapevo di essere una bella donna e di risultare abbastanza appariscente nonostante il mio metro e settanta scarso; non ero di certo una ragazzina cieca e insicura che fingeva di considerarsi bruttina solo per poter ricevere i complimenti forzati degli astanti. Nonostante questo, sapevo di valere soprattutto per il mio cervello e io mi ero sempre impegnata per non risultare la ragazza che era riuscita a ottenere tutte le sue fortune soltanto grazie al proprio aspetto fisico: questa era l'accusa che più non sopportavo.

Certo, Michael il giorno del mio colloquio nell'azienda mi aveva assunta su due piedi senza nemmeno sbirciare il mio ridicolo curriculum di cameriera laureata in storia dell'arte, ma durante gli anni passati a lavorare nell'azienda di suo padre io mi feci strada, promozione dopo promozione, grazie alle mie capacità e al mio impegno. E anche se dopo soli quattro anni di lavoro io ero diventata il capo del personale di una delle più importanti catene alberghiere degli Stati Uniti, sapevo svolgere egregiamente il mio lavoro e nessuno se ne era mai lamentato. Certo, gli idioti che ancora paventavano che io fossi arrivata a quel livello solo perché mi scopavo il capo durante la pausa pranzo... beh, quelli purtroppo c'erano e ci sarebbero sempre stati: era il prezzo compreso per poter essere chiamata signora Morgan. Io cercavo di passare oltre; in fondo, gestivo le assunzioni dei nuovi dipendenti, davo il via ai pagamenti delle buste paga e, grazie alla delega di firma sugli assegni e sui permessi che Michael mi aveva dato qualche mese prima, io controllavo il giro economico di una consistente parte delle entrate e delle uscite di tutta la società. Se sapevo fare tutto questo dopo così pochi anni di esperienza, evidentemente le mie capacità non erano solo relative al settore "ginnastica da letto e biancheria intima provocante" – anche se su quest'ultimo punto Michael non aveva mai trovato nulla di cui lamentarsi -.

Quella mattina presi il solito taxi per arrivare al lavoro. Michael insisteva che io sfruttassi l'autista che stava alle nostre dipendenze, così come aveva sempre fatto lui, ma almeno in quel piccolo frangente volevo essere indipendente, senza lasciar sapere dove mi recassi ogni singolo giorno della mia vita. Dopotutto, vivevo con mio marito, nella sua casa, guidavo le sue macchine, lavoravo nell'azienda della sua famiglia, spendevo i soldi che guadagnavo, ma che in fondo era sempre lui a darmi... volevo mantenere ancora un briciolo di indipendenza per quel poco che mi era possibile.

Al mio arrivo ai piedi del grattacielo che ospitava gli uffici della Morgan Hotel Corp., lasciai una lauta mancia al tassista e presi un respiro profondo prima di entrare, iniziando già a contare a ritroso i minuti che sarebbero mancati alla fine di quella lunga ed estenuante giornata, uguale a mille altre che avevo già passato. Non odiavo il mio lavoro, ma di certo stare in mezzo a scartoffie, calcolatrici e computer non era mai stato il mio sogno. In adolescenza avevo sognato un futuro del tutto diverso, fatto di arte, di pittura e della Layla affermata artista che vendeva i propri quadri in qualche galleria prestigiosa di Soho... ma gli anni erano passati anche per me e alla fine tutti i miei sogni avevano preso forme e colori differenti.

UNFAITHFUL - Vincitore WATTY AWARDS 2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora