Il foulard di Agnieszka Nowak

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Polonia (Varsavia) - 1943

Il pacchetto è semplice: un fiocco argentato su una scatola di cartone.
Un biglietto sgualcito e un po' stropicciato preso dall'angolo bianco di non so quale quotidiano, recita:
"Che questo giorno inizi sotto un buon auspicio. Che questo ultimo atto di eroismo riporti in alto la nostra patria. Che i tuoi occhi color dell'indaco splendano al fuoco dei fucili sul petto dei nostri usurpatori. Buon compleanno Agnieszka"
Sorrido fissando il biglietto; intorno a me, i miei compagni di camerata, aspettano ansiosi che apra il mio regalo.
Il mio fratellino Miroslaw, ancora abbastanza piccolo per urlare la sua gioia nel vedermi sorridere, dall'angolo del letto più vicino a me, mi sprona muovendomi dolcemente le spalle e lasciando intendere di essere curioso di sapere cos'è.
Avvicino il pacchetto e lo apro: ne esce un foulard di seta scarlatta. Al tatto è morbido e sembra scivolarmi via dalle mani; lo avevano preso in un banchetto di contrabbando vicino alla sinagoga, mi spiegano successivamente.
Abbraccio mio fratello, strappando un sorriso a lui e a tutti i compagni di camerata: lo faccio sempre da quando so che, ogni giorno, fuori dalle mura del palazzo e lontana dalla base operativa, potrei trovare solo il buio eterno dato da uno Springfield che da un centinaio di metri mi colpisce, trapassandomi il cranio con un calibro 50, o da un Minigun che mi crivella di colpi, o saltando in aria su una di quelle maledette mine.
Il comandante Iwànski ha sempre detto di tenere la testa ben salda sul collo, ma ormai non è semplice, non all'alba del 15 maggio; entro domani mattina tutto sarà concluso: tutti saremo liberi, o morti.
Fisso il foulard e le voci di Miroslaw e dei miei concamerati diventano lievi rumori in lontananza: è un simbolo di forza questo foulard, la dimostrazione della mia appartenenza alla Polonia, e il mio ardore nel vederla finalmente libera.
Le SS però sono forze organizzate e ben addestrate, pronte ad ogni tipo di attacco, difesa e contrattacco.
Ogni sabotaggio, attacco dinamitardo, furto d'armi, imboscata, è una piccola vittoria che ci avvicina alla libertà, ma la vera libertà giungerà quando questi cani rabbiosi lasceranno la nostra patria.
Mi sembra di sentire il rumore degli spari, in lontananza; l'odore del gas asfissiante e del kerosene con il quale i lanciafiamme sono alimentati si arrampica su per le narici, fino al cervello: l'aria ormai ne è costantemente pregna.
Vengo distolta dai miei pensieri nel momento in cui la porta si apre rapidamente; vedo un sottoufficiale fare capolino oltre la piccola folla intorno al mio letto: ci informa che l'azione avrà inizio tra mezz'ora. Prosegue illustrandoci le dinamiche del piano: la squadra di cui farò parte si occuperà della fase iniziale dell'operazione, l'adescamento: sarà necessario attirare quanti più plotoni delle SS possibili verso il ghetto, da sud lungo via Snocza; questo avverrà anche sulle strade che convergono verso le porte del ghetto principali poste sui restanti punti cardinali, simultaneamente.
Spinti i tedeschi fino alle porte del ghetto, i soldati della ZOB attaccheranno con tutto ciò che è loro rimasto.
Aiuteremo le truppe ebree fino all'ultimo: liberare quello che resta del ghetto è un passo importantissimo per la liberazione di Varsavia.
Gli ultimi minuti passano a prepararsi per lo scontro, a vestirsi, indossando giubbotti antiproiettile tedeschi di bassa qualità, scartati per l'usura e confiscati qualche mese fa. Prendiamo i fucili da sotto i letti. Siamo pronti per l'azione: quindici soldati, uomini e donne, che combatteranno per la patria, o per la quale moriranno resistendo un'ultima volta.
Prima di uscire Miroslaw mi fa promettere di tornare da lui viva, e con un orsacchiotto da regalargli, per poi abbracciarmi per primo. Accanto a lui c'è il mio foulard: lo prendo e lo assicuro attorno al braccio destro.
Usciti all'esterno del palazzo, fuori dai cancelli, la strada è grigia e deserta, l'aria puzza ancora di più di polvere e gas, le macerie si ammassano ai lati della via.
Abbiamo l'ordine di proseguire, entrando dopo qualche minuto in via Snocza, dove tutto ha avuto inizio, il 19 aprile, quando le SS, su ordine del polizeifuhrer Stroop sfondarono i cancelli del ghetto, entrandovi con due blindati, un carro armato, un cannone leggero e due antiaerei, al loro seguito: 34 unità di fanteria, bloccati dalla ZOB in un conflitto armato. Il cerchio si chiuderà qui, dove si è aperto: noi, o loro.
Sentiamo dei passi. Corriamo a nasconderci, separandoci sui due lati della via, e aspettiamo; sopraggiunge dopo poco un plotone tedesco che prosegue nella direzione opposta alla nostra: aspettiamo che passi e, al segnale, ci riversiamo sulla strada.
I nemici si girano, riconoscendo la nostra appartenenza all'Armia Krajowa. Iniziamo a correre, a zig-zag, mentre le SS sollevano i fucili. Proseguendo lungo il percorso stabilito li sentiamo correre dietro di noi. Nella confusione sento altre voci tedesche sui lati, dei colpi in diagonale, detonati alle nostre spalle: un suono sordo, dietro di noi qualcuno è stato colpito, ma non possiamo fermarci. Il rumore dei passi dietro di noi è più corposo: altri tedeschi ci stanno inseguendo. Non troppo distante dall'entrata del ghetto, altri spari dietro di noi e altri due corpi che sprofondano nel buio; uno di loro era al mio fianco: sento goccioline calde e viscose poggiarsi sul mio viso: sangue. Corriamo più veloci, finché non distinguiamo nitidamente la resistenza ad attenderci.
Un rumore metallico si fa spazio in tutta la concitazione, mentre varchiamo le porte del ghetto: un cingolato sbuca alle spalle dei soldati; lo vedo appena in tempo, mentre le porte vengono chiuse, e la ZOB inizia a sparare sopra di noi.
Del ghetto è rimasto poco e nulla, solo polvere e macerie sporche di sangue.
All'odore di gas si aggiunge l'odore di morte. Riprendiamo fiato, appena in tempo per essere pronti quando, sopra di noi, il parapetto dal quale la ZOB sta sparando, salta in aria: il cingolato ha sparato riducendo a brandelli i soldati della resistenza ebrea. Pezzi di corpi cadono dall'alto seguiti da sangue, parti di muro e polvere.
L'esplosione crea un sussulto in ognuno di noi; mi si raggela il sangue a quella visione.
Quasi istintivamente sono presa da un senso di panico: inizio a tremare pervasa dalla voglia di allontanarmi il più possibile. Poggio lo sguardo sul foulard: siamo qui a combattere per la patria e né io né i miei compagni abbandoneremo la nostra posizione sostenendo il più possibile la ZOB. I soldati di quest'ultima, però, cominciano a correre verso il centro del ghetto. Iniziamo di nuovo a correre standogli dietro. Subito dopo l'inizio della corsa, un'altra esplosione detona alle nostre spalle. Il cingolato ha sfondato i cancelli permettendo l'entrata della fanteria, altri colpi si susseguono, esplodendo sulle macerie accanto a noi; la vista è offuscata dalla polvere ma proseguiamo seguendo il rumore di altri spari che, davanti a noi, rimbombano nella piazza centrale, un'ulteriore esplosione ci coglie alla sprovvista: il cingolato ha colpito a pochi metri da noi; sento il calore delle fiamme sulla schiena, dietro di me, qualcuno urla di dolore.
Appena le urla cessano, la strada inizia ad allargarsi, la polvere si dirada, mostrando ai nostri occhi uno spettacolo sconvolgente: corpi mutilati, sangue, odore di polvere da sparo e urla strazianti raffigurano la piazza come il teatro di una "caccia al topo", i nostri soldati, e la resistenza, stanno facendo il possibile ma le forze di Stroop risultano nettamente maggiori. Rallentiamo, di fronte a questo massacro e, presa da un impeto di rabbia, mi volto, iniziando a sparare verso il nemico, prendendo a mala pena la mira. I miei compagni mi imitano, e i tedeschi rispondono facendo fuoco: ne colpisco uno, ma simultaneamente altri tre di noi trovano il buio, o la pace; sento un fischio sferzare l'aria, ma non mi rendo conto abbastanza in fretta di un proiettile che mi ha appena perforato la spalla, non fino a quando il dolore si impossessa di me.
Non posso, non possiamo arrenderci, non ora. Ci voltiamo e corriamo verso il centro, lì dove gli scontri sono più feroci, e fino ad esalare l'ultimo respiro strozzato dai gas asfissianti, dalla polvere e dall'odore di morte, ci battiamo, per Varsavia.
D'un tratto: buio.

Agnieszka non tornò mai indietro con l'orsacchiotto che mi aveva promesso.

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