La guita

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“Qui vicino c’è un bel posto” aveva detto Miguel. Il bel posto era La Guita, lounge bar presso il quale facevo tappa più o meno fissa, riflettendo, e leggendo i quotidiani locali, oppure osservando l’incedere del popolo di Siviglia.  Il bel posto non era nuovo. Era – peraltro - il luogo in cui avevo appreso la disponibilità dell’appartamento su Calle Santiago. Sedemmo a uno dei tavoli disposti con cura geometrica all’esterno della vetrata che attraversava per intero il locale, e ordinammo i caffè che ci eravamo promessi. Eccoci qui dunque. Faccia a faccia, come due conoscenti di vecchia data, seppure non ci si possa definire conoscenti, tantomeno di vecchia data. Non sapevamo nulla uno dell’altro, se non le contingenze presenti che ci avevano condotto a una presentazione gentile e a uno scambio contrattuale utile per entrambi. Fino a quel giorno il nostro rapporto era connotato da un do ut des che stava funzionando alla perfezione. La nostra presenza su Calle Arfe era un’occasione imperdibile. Quello che ci voleva, pensai, per fare colpo su Miguel e – per transitività – per coltivare con fiducia un interesse che era tale solo nel mio intimo, un interesse pertanto inconfessato. Alma Carrasco era una forma di donna gravida di una certa ossessione, un’ossessione timida, allo stato embrionale, della quale in un certo senso mi vergognavo: i suoi connotati erano quelli dell’inspiegabilità. Lei stava con quell’uomo che adesso mi stava seduto innanzi, solare, bello, spalle larghe, labbra disegnate per bene. Stava con lo stesso uomo che mi accompagnava su Calle Arfe. Lui con la convinzione di assecondare l’insicurezza di un forestiero bisognoso di amicizia, io con quella di portargli via Alma e tutto ciò che lei era stata capace di ispirargli. Non volevo una vittoria, volevo una resa incondizionata e come i soldati del cavallo di Troia stavo per calarmi fuori dalla sua bocca per anticiparne le mosse. Il bersaglio del mio sentimento sbagliato era lì. Sfrontato ed eccitato dalla situazione aprii le danze del nostro atto di convivialità.

- Ti piace il tuo lavoro? – chiesi a Miguel.

- Dici la libreria? È tranquilla, e pagano bene. Non sono un appassionato di libri, ma ho imparato in fretta a farmeli piacere. Ci lavoro da un anno più o meno. – Era sicuro del fatto suo. Lo era stato anche il giorno prima. Due indizi fanno una prova. Miguel… sa quello che dice.

- Mi sembra di capire che non è il lavoro che sognavi.

- No, infatti. Ma io vivo il lavoro senza pathos. Lo suono come uno strumento musicale, e lo faccio suonare alla tonalità che mi sembra più bella. Il lavoro è uno strumento, ti serve per poter fare quello che nella vita ami fare veramente.

- Lavorare per vivere, non vivere per lavorare…

- Esatto.

- Tu, Emme, di che ti occupi? Come ti guadagni da vivere?

- Il vivere va guadagnato?

- Di solito si. Certo… dipende molto dalle aspettative che uno ha, dal modo in cui intende vivere.

- Diciamo che a casa mia… il mio vivere se lo sono guadagnato anche per me. Abbiamo un’azienda che costruisce macchinari per la pulizia industriale. Il problema è che quel genere di attività non mi interessa granché, non stimola il mio entusiasmo. Sono socio dell’azienda al trentatré percento, coi miei due fratelli. – La riflessione sul “guadagnarsi da vivere” mi interessava. Non ne avevo mai parlato con nessuno in quei termini, se non con persone di famiglia il cui tono era solitamente acuto e biasimante per il figlio o il fratello (cioè me) in fuga dalle responsabilità, pertanto reietto.

- Cazzo, sei fortunato!

- Dici?

- Molto, anzi moltissimo.

- In che senso? Per i soldi?

- Certo, ma non solo. – Miguel dava l’impressione di covare un ragionamento dotato di senso e bene articolato. Aveva una parlantina niente male, un totno di voce diverso da quello adoperato il giorno prima all’appartamento di Calle Santiago, e pensai che fosse diverso per l’assenza di Alma, donna che – senza bisogno di alcuna evidenza (le donne hanno un potere sul genere maschile che va oltre l’odore della loro vagina) – ne influenzava le azioni e i pensieri.

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