Il ragazzo del bar

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Il ragazzo del bar.

Prima che scoppiasse la guerra, il bar alla destra della piazza era molto frequentato: non che avesse prodotti migliori, o che il barista – un omaccione con un grande paio di baffi scuri che aveva rubato il locale ad un capitalista tutto cilindri e panciotti – fosse particolarmente simpatico, semplicemente c’erano due belle cameriere, anche se dopo un po’ una di loro venne sostituita da un biondino piuttosto magro, con due grosse sopracciglia e gli occhi verdi come i prati del Garrison.

Le due signorine attiravano molti uomini dentro il pub, per il semplice fatto che, come tutte le cameriere, si lasciavano corteggiare, senza mai, però, cedere davvero. Il massimo risultato l’aveva ottenuto un signore sui trent’anni, che un giorno era riuscito a baciare una delle due sulla guancia; eppure, nonostante i continui fallimenti, tutti continuavano a provare a far perdere la testa alle ragazze. Il più insistente di tutti era un americano occhialuto, venuto in terre inglesi per chissà quale motivo, che era tipico fare battute sceme una dopo l’altra, lamentandosi del cibo, a suo parere schifoso.

Quando la più carina tra le due se ne andò, Alfred non sembrava esserci rimasto male. Aveva cominciato a prendere in giro il nuovo assunto in ogni modo possibile e più volte i due si erano dichiarati guerra aperta, senza mai, però, arrivarci davvero. La gente intorno pensava che in fondo si volessero bene, nonostante l’astio che gli occhi di Arthur rasentavano appena le spalle di Alfred entravano dalla porta dingresso, ogni giorno alla stessa ora.

«Io odio gli americani», aveva detto un giorno l’inglese, porgendo una tazza di tè ad un cliente, «avete un modo di pensare assurdo. E poi vi credete importanti solo per il New Deal».

«Dici così solo perché vi abbiamo rubato il posto come grande potenza».

«Spero tu stia scherzando: fino a qualche secolo fa nemmeno esisteva il tuo stato». E poi Arthur tornava a preparare le ordinazioni, e Alfred a leggere il giornale, che ogni giorno riportava notizie sempre più buie riguardo la situazione che si stava creando, simile a quella che c’era prima dell’inizio della Grande Guerra, secondo i quotidiani.

Al bar, la radio era sempre accesa. Per Arthur i brani che passavano, significavano che la guerra era ancora lontana dal suo territorio e dal mondo e spesso serviva i clienti e si fermava ad ascoltare le canzoni di Vera Lynn, come incantato, sotto lo sguardo perplesso di Alfred, che di giorno i giorno si fermava per sempre più tempo. Beveva un caffè, poi si fermava lì per due ore da solo, ad ascoltare la musica; a volte improvvisava qualche passo con la cameriera rimasta, altre tormentava Arthur, con i suoi capelli sempre spettinati e gli occhi verdi come i prati del Garrison. Non che l’avesse mai visto, lui.

Alfred era andato a vivere in Inghilterra per diletto, pochi mesi prima, e pensava di andarsene subito, eppure ogni giorno passato in quel locale gli facevano venire voglia di restare lì per sempre, a ridere e scherzare con quel ragazzino, di due anni più piccolo di lui, a cui ormai si era affezionato.

Così, il tre settembre, era ancora lì. Ed era proprio al bar quando un brano s’interruppe e la voce di Re Giorgio cominciò a farsi sentire, forte e chiara. Parlava riguardo un conflitto a cui la Gran Bretagna non poteva sottrarsi, di alleanze, di principi cui lo Stato doveva attenersi.

«Per la seconda volta nella vita di molti di noi, siamo in guerra» diceva la radio, mente tutte le persone presenti nel locale rabbrividivano, i bicchieri alzati a metà o rovesciati sui tavoli.

Quella sera, sul tardi, l’americano tornò al pub dal quale era scappato qualche ora prima, dopo il discorso. Si sentiva la testa pesante, il suo passo era goffo ed ondeggiante, aveva chiaramente bevuto troppo, ma non gliene importava nulla. Nulla. Perché si era innamorato di quello stupido inglesino che avrebbe subito lasciato il locale per arruolarsi nell’esercito, come ordinato. E non gliene sarebbe dovuto importare neanche di questo, perché quel ragazzo non l’avrebbe rivisto più. Eppure era lì, a spalancare la porta, con il battito accelerato e il dolore a pulsargli nel petto.

Attraversò la stanza e si fiondò dietro il bancone, spingendo Arthur nella stanzetta sul retro. Ora erano lì, e questi lo guardava terrorizzato e lui non sapeva nemmeno cosa accidenti dirgli; scusarsi? Confessargli tutto? Chiedergli se, per favore, avrebbe potuto fuggire con lui? Alla fine lo prese per le spalle e gli lasciò un bacio sulle labbra, che subito approfondirono. Arthur, che di liquori se ne intendeva, sentì il sapore del whiskey entrargli nella pelle e sbattere contro la sua lingua, ma rimase fermo, finché non poggiò le mani sulle braccia dell’americano allontanandolo, per poi abbracciarlo.

Il giorno dopo Alfred non andò al bar. A dire la verità, ci tornò solo molti anni dopo, quando era ormai un uomo fatto e finito e il sorriso era tornato a governare il suo viso; aveva anche cambiato montatura agli occhiali, e si era fatto più alto e robusto. Si sedette di fronte al bancone, ma la cameriera, la solita ragazza coi capelli rossi di prima, lo riconobbe subito, e gli sorrise.

Appoggiò davanti all’americano una pergamena, il foglio era dorato ed un sigillo di gomma la chiudeva, a malo modo. La firma del caro vecchio Re Giorgio fece sparire per un attimo il sorriso dagli occhi di Alfred. I fucilieri della compagnia C erano tutti morti, recitava, l’Alto Comando non aveva potuto fare niente, se non portare via Arthur da lui.

Ora davanti al bar c’è una targa.

Leggenda dice che, nel fumoso anno che fu il ’45, un giovane americano venne a richiederla, con in mano una pergamena firmata da Re Giorgio in persona. Nessuno sa sia vero oppure no, ma tutti si fermano a leggerla, ripensando al soldato Arthur Kirkland, un tempo cameriere in quello stesso pub, ucciso durante una delle più grandi battaglie della Seconda guerra mondiale.

Alcuni pensano che l’americano abbia fatto davvero un bel gesto, altri sono convinti non sia mai esistito; ma quel bacio al sapore di whiskey, Arthur se lo ricordò sino alla fine.

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