BEGINNINGS

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L'aeroporto è uno di quei posti che mi mettono malinconia. Partenze, arrivi. Immagino sempre delle elaborate storie nascoste dietro ogni volto, ogni abbraccio.
Mi stringo nelle mie stesse braccia che ho ingenuamente tenuto scoperte perché il meteo prevedeva una giornata assolata, qui a Milano. Ma le previsioni non tengono conto dell'aria condizionata tipica degli aeroporti.
Stupidamente non mi sono premunita di una felpa per le necessità, e la valanga di valige che mi porto dietro è già stata portata in stiva.
Continuerò ad avere freddo, non c'è soluzione.
Mi avvicino all'ampia vetrata che affaccia sulla pista senza fine. Navette, carrelli, aerei di diverse dimensioni vengono mostrati agli occhi di passeggeri in anticipo o di amici e familiari in attesa.
Sembra quasi di guardare la vetrina di un negozio, o forse è tutto più simile a uno zoo. Dove gli animali siamo noi, qui, dietro il vetro che in controluce rivela opacità, ditate e pulizie svogliate.
In breve, il mio sguardo smette di mettere a fuoco la pista e si concentra sulla mia immagine riflessa.
Posso vedere tutto di me. Le mie esili gambe corte, strette in un jeans slavato nero. Ai piedi l'onore Dr. Martens. La t-shirt oversize grigio topo nasconde ulteriormente un seno innatamente poco sviluppato.
Mi soffermo sui particolari del viso: riconosco la stanchezza dalle lievi occhiaie che non mi sono preoccupata di coprire, questa mattina. Come non mi sono occupata di sistemare meglio i lunghi, lunghissimi capelli biondo cenere che tanto non sopporto.
Il vetro non riesce a riflettere il colore cristallino dei miei occhi, incastonati tra ciglia incredibilmente lunghe. Ma c'è una cosa che riesce a riflettere perfettamente: sono sola.
Non ho voluto nessuno con me. Se i miei genitori o le mie sorelle mi avessero accompagnato non sarei riuscita a fare neppure un passo verso l'aereo.
Nonostante sia convinta della mia decisione, nonostante sia pienamente cosciente delle scelte che sto mettendo in pratica, i volti delle mie sorelline mi avrebbero bloccato. Quasi sicuramente.
Mi sono fatta forza. Ho chiamato un taxi dopo aver salutato con caldi abbracci troppo brevi, uno per uno ogni componente della mia famiglia. E sono partita.
Anche se non sono neppure salita sull'aereo, si può dire che la mia avventura sia già iniziata. Nel momento stesso in cui ho messo piede fuori di casa, questa mattina mentre albeggiava.
Mi riscuoto dai pensieri, trattenendo qualche lacrima che vuole sfuggire dal mio controllo, e dò un occhio all'orologio, rigorosamente al polso destro, perché sul sinistro mi infastidisce.
È ora di fare il check-in.
Mi dirigo al banco dell'imbarco e mostro alla ragazza seduta dietro la scrivania, una bella ragazza sui trent'anni con un sorriso dolce e una targherà con scritto "Marta" appuntata sul petto, il mio biglietto di sola andata per Londra.
-Buongiorno, Andrea. Si accomodi pure. Il decollo è previsto tra circa mezz'ora, mi dice, cortese.
Non le rispondo. Mi limito a rivolgerle un sorriso sincero, avviandomi verso il tunnel che dà direttamente al corpo dell'aereo.
Mi siedo al mio posto, una poltroncina imbottita color blu elettrico. Cerco la posizione più comoda in previsione delle quasi due ore di viaggio, anche se so perfettamente che la cambierò spesso. Estraggo l'iPod dalla borsa che ho portato con me e mi immergo nella musica. Cerco di immaginare come sarà vivere in una casa nuova, diversa dalla mia.
Mi appoggerò per qualche tempo a casa di Trisha, una vecchia conoscenza universitaria di mia mamma.
Lei ha frequentato un'università in Inghilterra, laureandosi come interior designer, poi, è tornata in Italia dove si è definitivamente stabilita, creandosi una famiglia, ma senza mai smettere di mantenere i rapporti con quella che definisce "la sua più cara amica".
Da quando sono nata, ventitré anni fa, non ho mai avuto occasione di conoscerla. Almeno, non dal vivo.
Ogni sei mesi, Trisha e mia madre organizzano un viaggio insieme, e per una settimana si dedicano l'una all'altra, alla propria amicizia.
Un rapporto invidiabile, che, personalmente, ho stretto con una sola persona in vita mia.
Ma di Serena parlerò più avanti.
Fatto sta che sono stata titubante fino all'ultimo nel prendere la decisione di fare irruzione nella casa e nella vita di una donna che mi vuole bene per osmosi, ma che, in effetti, nemmeno mi conosce.
Mi faccio forza pensando che sarà solo per qualche tempo, finché non troverò un appartamento che sia di mio gradimento.
Con questi pensieri in testa, mi appisolo. Sicuramente con la bocca aperta, conoscendo la mia grazia.

Mi risveglio quando gli altoparlanti dell'aereo avvertono in un suono metallico i passeggeri che stiamo per atterrare.
Mi ricompongo frettolosamente, spengo l'iPod e lo metto in borsa.
Finalmente sulla terra ferma, mi accodo diligentemente alla fila per uscire dall'aereo.
Non appena intravedo uno scorcio di cielo, grigio, ma grazie a Dio senza pioggia, accendo il cellulare. Ho promesso a mia madre di chiamarla subito.
Colgo l'occasione per chiederle se ha sentito Trisha, se sarà puntuale e la troverò fuori dal gate ad attendermi o se sia il caso di farmi lasciare il suo numero di cellulare per poterla sentire personalmente.
Rimango basita quando, con tono titubante, mia madre mi spiega che per motivi di lavoro Trisha è stata trattenuta tutta la giornata a un convegno, e che ha incaricato suo figlio, Zayn, di venirmi a prendere in aeroporto.
Ottimo, mi dico.
Non sapevo nemmeno che avesse un figlio.
Non mi lamento, però. Mi sembra scortese.
Finisco di parlare con mia mamma mentre raccolgo le mie enormi valige dal nastro trasportatore e le metto tutte su un carrello di metallo cromato, messo a disposizione dei viaggiatori carichi di bagagli come la sottoscritta.
Saluto mia mamma, e con un po' di timore in più rispetto a prima della chiamata, mi dirigo verso le scale mobili.
Mentre queste si muovono in un infinito moto a scendere, cerco di individuare un ipotetico Zayn.

feMALEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora