Capitolo IX

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Vienna, 17 marzo 1815




L'atrio fu subito invaso dalla confusione della battaglia. Il clangore delle spade di metallo risuonò intorno a lui, mischiandosi a ringhi furiosi e grida selvagge. Gontrand Bonhomme fu il primo a scaraventarsi come una belva contro Dorian Sorel e a dare inizio allo scontro. La sua grossa ascia mulinò tra le sue mani, sotto gli occhi di tutti per alcuni istanti, prima di incontrare  l'acciaio della lama dell'altro. A quel punto, nessuno più rimase a guardare lo spettacolo. Dal canto suo Tiberius Blanchard s'abbassò di scatto per evitar di essere falciato dalla daga del suo avversario, poi si raddrizzò nuovamente, alzò la propria per schivare l'ennesimo fendente e si ritrovò il volto di Vaudémont a pochi centimetri dal proprio.

«Allora, caro comandante» lo interpellò con un ghigno, «come ci si sente con una mano sola?».

Lui digrignò i denti. «Meravigliosamente!».

Tiberius si sentì pervadere da capo a piedi da un'ira tanto sanguinosa, da offuscare qualsiasi pensiero razionale. La spada che stringeva con entrambe la mani, una di carne, l'altra di ferro, divenne d'improvviso un tutt'uno con il suo corpo, come un arto prolungato che acquisiva vita propria. Non si era mai sentito tanto forte e al tempo stesso tanto sfinito e affannato come in quel momento. Balthazar, invece, rispondeva con calma e disinvoltura ai suoi fendenti.

A pochi passi da loro Yann Chapeaublanc falciò l'ennesimo Usurpatore, piantandogli una freccia nel petto. Era così abile con l'arco che si ritrovava a puntare frecce a più non posso senza quasi nemmeno fermarsi a prendere il bersaglio. In quell'istante, un pugnale mulinò nella sua direzione. Il giovane dai lunghissimi capelli bianchi fece una capriola, afferrò subito un altro dardo dalla propria faretra, e poi scoccò. Non si soffermò a guardare un nuovo avversario cadere ai suoi piedi in una pozza purpurea. Il combattimento accanto alla crepa gigantesca nel muro procedeva alla pari tra Sorel e Bonhomme. Le loro armi cozzavano, generando stridii agghiaccianti. Altri Usurpatori e altri Non-Bruciati caddero. La carneficina aumentava sempre più. Delahaye impugnava la sua lancia.

Il comandante sentiva che avrebbe potuto continuare per sempre, anche se ormai da tempo i muscoli e le ossa invocavano tregua.

«Cosa c'è?» lo provocò ancora Vaudémont. «Ti stai stancando?».

«Ho atteso» sibilò con voce aspra, trasfigurata dall'odio e irriconoscibile perfino a se stesso, «ventidue anni questo momento. Mi dispiace deluderti, ma non ho intenzione di fermarmi, Balthazar, né ora né mai».

Tiberius gli sferzò ringhiando lo zigomo con la punta della spada, facendo per tagliargli la pelle. Per un istante che sembrò durare in eterno, al comandante mancò un battito. Vaudémont si era mosso tanto in fretta, da riuscire ad eludere il colpo, ma non abbastanza da impedirgli di recidergli una treccina, che cadde sul pavimento tra di loro come una linea separatoria.

L'Usurpatore ghignò con il ghiaccio negli occhi scuri, abbassando appena la spada in una tregua apparente.

«Non è cambiato niente, vero?» si fermò a chiedergli. «Anche dopo tutti questi anni, riesco ancora a batterti».

«Tu credi?» ribatté Tiberius, scoprendo i denti. «Non mi pare che finora tu mi abbia mai ficcato una spada nel petto».

Per qualche minuto, nessuno dei due parlò. Le lame cozzavano e si scontravano in modo tanto improvviso, che era del tutto impossibile discernere l'una dall'altra.

«Nei miei sogni succede» ringhiò Vaudémont, d'un tratto non più indifferente come prima, ma con un'espressione trasfigurata dal rancore. Anche la sua voce si fece aspra. «Oh, quante volte ho desiderato farlo, quante volte ho desiderato pugnalarti, con questa stessa lama. Non lo immagini neanche... tu, il grande Tiberius Blanchard! Ci riuscivo sempre, mentre tu imploravi sotto la mia daga...».

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