“Per darti di più
con le braccia posso stringerti
per darti le cose che tu credi indispensabili
per non stare solo
per sognare ancora
quando la tua stanza ti farà paura”
Per sognare ancora -Neffa
C’erano sempre loro, ovunque io guardassi. Sembravano poter anticipare i miei movimenti prima ancora che questi potessero prendere atto nella mia mente. In un incrocio di una delle tante strade di New York mi guardavo vertiginosamente intorno, registrando un insolito deserto. Persone, veicoli e la vita stessa sembravano aver abbandonato quella città per lasciarmi nelle mani dei miei aguzzini. Gli stessi che giravano intorno a me, come robot, che brulicavano da ogni dove apparendo, ai miei occhi, sempre più simili ad uno sciame di scarafaggi.
Ed era a quel punto del sogno che il fiato mi di mozzava, che un terrore sordo mi suggeriva che ben presto la loro indifferenza non sarebbe più stata clemente e che quindi mi avrebbero raggiunta per conseguire il loro compito. L’impulso di correre altrove sfumava in un’improvvisa paralisi, la quale mi costringeva a rimanere con i piedi incollati a terra, gli occhi sbarrati che inglobavano le loro figure nere. Le stesse figure nere che ora avevano preso coscienza della mia presenza, nemmeno mi fossi mossa o avessi gridato; tutt’altro, mi limitavo a piangere silenziosamente pregando di svegliarmi, di tornare a mirare il soffitto crepato della mia stanza…e invece no: ero lì impalata ad osservare il loro intercedere lento, meccanico, sicuri che la preda terrorizzata non aveva nessuna possibilità di scampo.
Gli agenti dell’Ultra si posizionarono di fronte a me come un plotone di esecuzione, sollevando con straziante lentezza le pistole verso il mio petto.
E quello, avevo imparato a capire, era il momento in cui nel sogno partiva un sincrono di spari capace di colmare il silenzio irreale di New York, unito alla mia ritrovata voce che gridava una sola e disperata implorazione “NO!”
Quella notte sbarrai di colpo gli occhi, scontrandomi con il buio confortante della mia stanza, una mano poggiata sul cuore per ascoltare i suoi battiti furiosi. Due settimane e mezzo, e gli incubi riescono ancora a farmi svegliare come una ragazzina nel cuore della notte, pensai tristemente, sollevandomi per riprendere un respiro regolare ma, soprattutto, per districarmi dal lenzuolo che si era impigliato tra le mie gambe lunghe.
Per due settimane avevo vissuto come una reclusa in casa, simulando una malattia che non avevo, mentendo ai miei genitori che, comprensivi, si sforzavano con un sorriso bonario di credere al mio malessere. Avevo mentito a tutti, e agli occhi di tutti ero risultata credibile ma bastò che su di me si posasse lo sguardo di John Young per cedere, abbattere le difese e mostrarmi per quello che ero diventata: una miserabile paurosa, terrorizzata dal minimo scricchiolio che, sì, proveniva da un qualsiasi mobile d i casa ma che, prima di potermene rendere conto, la mia mente aveva già sfilato i più incredibili scenari aventi come esclusivi protagonisti gli agenti dal lungo cappotto scuro, dagli occhi privi di calore celati dietro un paio di occhiali da sole, immancabilmente neri, come tutto in loro. Probabilmente anche la loro anima rispecchiava quel tono lugubre; d’altra parte, come si potrebbe sparare a freddo ad una adolescente senza possedere una grande, triste e profonda oscurità?
Avevano reso il mio quotidiano non molto lontano dagli incubi che mi braccavano di notte, seminando in me l’orribile sensazione di essere in pericolo persino con Stephen. Allungai un braccio per prendere la bottiglietta d’acqua sul comodino, cercando di ignorare l’impulso di girare il tappo e svuotarmela in testa, per riprendermi.