RELITTI D'INCHIOSTRO

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ci tenevo a precisare che questa storia non è mia, bensì di Chayu Juliette su efp, che mi ha dato il permesso di trasferire qui le sue opere d'arte.


Kyungsoo affonda dal basso. Vorrebbe essere abbastanza stupido da poter dire, Kyungsoo risale, ma siccome non vede nessuna luce, allora è chiaro che sta affondando.

Ora non ha più importanza che si parta dal basso o dall'alto o quale sia il sopra e quale il sotto; Kyungsoo affonda dentro e non ha appigli.

Una macchia d'inchiostro, piccola, si riassorbe in se stessa e poi implode, e si disperde, cancellata dall'acqua dalla faccia della terra, poco a poco.



Disperato, io non lo ero mai stato. E nemmeno furioso o, perché no, euforico. Le emozioni forti non mi piacevano: avevano quel che di destabilizzante che ti porta col cuore sul ciglio di un dirupo; una sensazione che avevo imparato a detestare col passare degli anni. Non che la mia vita fosse poi così esaltante, comunque. A me, però, piaceva credere che avrebbe potuto diventarlo da un momento all'altro, e così la mia ieraticità mi pareva una gran dote.

Ero una persona che si disegnava davanti ai piedi la linea della razionalità, in qualsiasi contesto. Ero quello che s'imbambolava alla cassa di un caffè di periferia, intento nel gareggiare mentalmente col commesso, per vedere chi avrebbe saputo calcolare il resto più velocemente.

Ma chi volevo prendere in giro? Sono tutti capaci di destreggiarsi in un'avventura di cui si serba solo un sospetto vago, un' avventura che deve ancora venire. È un modo comodo di vivere.

Per questo, quando incontrai Kim Jongin, la mia vita andò a farsi fottere, più o meno. Forse è più corretto dire vecchia vita. La mia vecchia vita andò a farsi fottere, e di questo, penso, non potrò mai essergli grato a sufficienza.

Io rimasi folgorato da lui, e dalla sua capacità di frantumare quella compostezza di cui andavo fiero, anche solo battendo le ciglia.

Anche se ora la linea della razionalità non la vedo più, anche se ora mi servirebbe davvero quella linea, perché ora, ora sì che lo sono, disperato.

La porta della mia cabina era chiusa; era stata una mia scelta, nonostante rendesse l'ambiente ancora più asfittico di quanto già non fosse. Le chiacchiere degli altri passeggeri mi irritavano. Non che avessero nulla di effettivamente sgradevole: erano solo chiacchiere. Frivole, inutili e superficiali.

Probabilmente, in altri frangenti non le avrei notate: io non notavo le cose; guardavo le nuvole e inciampavo nei tombini, figuriamoci.

Il fatto è che la morte me l'ero sempre immaginata solenne e silenziosa, e, se proprio avessi dovuto attribuirle un suono, sarebbe stato quello di un gong. Sepolcrale e definitivo.

E invece mi ritrovavo a dover ascoltare He-Ran che raccontava alla sua migliore amica Yuna che qualcuno aveva detto chissacosa a chicchessia, e merda simile. Eppure, per quanto avvertissi chiaramente la repulsione spingermi l'acido su per la gola, a me non veniva da piangere.

Così decisi di smettere di pensare. Mi alzai -ero stato a sedere contro l'unico ritaglio di muro a cui non fosse stato addossato un letto per l'ultima mezz'ora-, riordinai le mie poche cose, e le riposi dentro il mio modesto bagaglio, come se mi aspettasse ancora un viaggio; come se non fossi mai partito.

Una volta chiuso il trolley e messo il lucchetto, data l'assenza di effettivi passatempi, iniziai a riordinare anche le cose del mio compagno di cabina, di gran lunga più disordinato di me; il caos che pervadeva la sua metà di spazio era, ai miei occhi, un'allettante modo di trascorrere quelle ore claustrofobiche.

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