Death and rain

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Le nuvole scure oscuravano il cielo e promettevano pioggia, ma non era ancora caduta neanche una goccia. Camminavo piano e nel silenzio della strada i miei passi rimbombavano. Mi sentivo da giorni come avvolto in una spessa coperta che mi divideva da tutto: niente riusciva ad arrivare fino a me e rimanevo quasi sempre chiuso in camera mia. Solo una volta a settimana mettevo piede fuori dalla mia bolla di tristezza. Allora mi dirigevo piano al cimitero, per andare a portarle dei fiori. Erano quasi tre mesi senza di lei, e in casa non si respirava più la stessa aria. Anche mamma non usciva più dalla sua stanza, mentre papà restava tutto il giorno in cucina: per la maggior parte del tempo cucinava piatti che nessuno mangiava mai, ma a volte lo vedevo sedersi al tavolo e piangere in silenzio, nascondendo il viso tra le mani. Dal canto mio, mi ero completamente isolato: a scuola tutti fingevano di preoccuparsi per me quando sapevo che non gliene importava niente. A casa non ne parlavo, sapevo bene quanto fosse già dura per i miei. La mia valvola di sfogo erano quelle passeggiate al cimitero. Sceglievo orari in cui non passava nessuno per le strade e camminavo piano, guardandomi intorno. Ricordandomi quando lei cadde vicino a quella casa, come le piacesse correre per la via, rivedendola mentre saltellava con la corda lungo il marciapiede... A metà strada una casa aveva un giardino con dei bellissimi fiori gialli; era il suo colore preferito e la prima volta che li avevo visti ero con lei. Da quando è morta le porto un mazzo di quei fiori una volta alla settimana, quasi fosse un rituale.

Il primo mese piangevo tutti i giorni, e anche di notte mi svegliavo con le lacrime agli occhi. Da quando avevo iniziato a portarle i fiori non mi succedeva più, ma non provavo neanche più a parlare con gli altri o a considerarli.

Anche quel giorno uggioso camminavo verso il cimitero, con le mani nelle tasche. Mi fermai davanti ai fiori gialli, e cominciai a cogliere quelli più belli. Una voce però mi interruppe quasi subito: "Ehi, speriamo almeno che la ragazza sia bella!" Un ragazzo moro che sembrava cubano mi parlava dalla finestra della casa. Aveva degli occhi azzurro cielo e delle lentiggini sul viso. Io lo guardai, un po' scocciato e un po' confuso. Quando realizzai che stavo praticamente rubando dei fiori dal suo giardino, arrossii. Lui non mi vide, perché si era precipitato fuori dalla casa. In meno di 30 secondi era davanti a me. Avevo visto bene: aveva degli occhi azzurri ipnotici, che come il mare avevano mille sfumature e sembravano essere in continuo movimento. Li fissai per due secondi più del dovuto, perciò il ragazzo distolse lo sguardo. Ritornai in me e balbettai: "Che... Che cosa hai detto?" La mia voce era roca, non la utilizzavo da quasi tre giorni ormai. "Ho detto che se arrivi a rubare dei fiori dal mio giardino, la ragazza deve essere come minimo stupenda!" Mi accigliai ancora di più: non riuscivo proprio a capire di che cosa stesse parlando questo tizio. Deve aver visto la confusione sul mio viso e si spiegò meglio: "La ragazza a cui stai portando i fiori... Questi sono i narcisi più belli della città, anche lei dev'essere bellissima!" Il suo sorriso era disarmante e prima di rendermene conto anche le mie labbra si erano curvate. Era da mesi che non sorridevo. Lui lo prese come un permesso di andare avanti e prima che potessi fare qualsiasi cosa, aveva esclamato: "Devo assicurarmi che sia degna dei miei fiori! Vengo con te!" Mentalmente stavo sbattendo la testa contro un muro, ma lui con quegli occhi stupendi e con quel sorriso mi convinse che portare un bello sconosciuto a conoscere la tua presunta ragazza, mentre invece stai andando al cimitero da tua sorella morta, fosse una buona idea per attaccare bottone. Mi sembrava essere passata un'eternità da quando avevo veramente desiderato conoscere qualcuno, ma con quel ragazzo cubano era diverso: se io irradiavo tristezza e ondate di negatività, lui sembrava un sole in miniatura da quanto la sua felicità lo faceva splendere. E avevo lo strano desiderio di tenere quel sole tutto per me. Camminava di fianco a me, cogliendo fiori dai cespugli che spuntavano a lato della strada e aggiungendoli al mazzo che tenevo in mano; sembrava saltellare e sapevo che io non sarei mai riuscito a essere così aperto e sereno con uno sconosciuto. Aggiungendo ai miei fiori una rosa si presentò: "Io sono Lance, comunque... Non ti ho mai visto nel quartiere, abiti lontano?" Mi fece quasi inciampare: non ero pronto a parlare con lui né tanto meno a presentarmi. Ma quando lui si girò e mi fissò dritto negli occhi, risposi: "Keith... É il mio... Il mio nome. Abito un paio di isolati... Da qui." Maledetta ansia... Incontro qualcuno che sembra simpatico e con cui vorrei davvero fare amicizia, ma balbetto, entro in confusione e non so come portare avanti una conversazione che si possa definire tale. "Keith, eh? Bel nome... Ma sai, io non mordo!" Forzai una risata, che sembrò ancora più finta unita a quella di lui, così cristallina e musicale. Speravo vivamente che si aprisse una voragine all'istante sotto i miei piedi, ma come al solito non succede mai al momento giusto. Immaginai che dovevamo sembrare proprio strani visti da un passante qualunque: due ragazzi che passeggiavano fianco a fianco, uno pallido e l'altro con un'abbronzatura perfetta, uno con capelli scuri e l'altro moro, uno con gli occhi di un colore scuro e cangiante e l'altro del colore delle onde del mare, uno con in mano un grande mazzo di fiori di tutti i tipi e l'altro che ne raccoglieva altri ancora, uno evidentemente a disagio e l'altro sorridendo serenamente. Proprio una strana coppia. Realizzai solo in quel momento che quel tipo, Lance, era convinto che stessimo andando da una ragazza. In primo luogo eravamo diretti al cimitero e si sarebbe accorto presto che in quella zona non viveva nessuna ragazza, in secondo luogo sarei sembrato decisamente inquietante quando avesse scoperto che l'avevo fatto venire con me senza nessun motivo. Anche se di motivi ne avevo ben molti, come quegli occhi mozzafiato o la piacevolissima sensazione che mi trasmetteva, o anche la voglia di avere qualcuno che non mi guardasse solo con pietà, non avevo intenzione di dirgliene neanche uno. Era sceso un terribile silenzio e, nell'affannoso tentativo di salvare la situazione, balbettai qualcosa come: "Sei cubano? Sembri cubano. Ma non è una brutta cosa, mi piace Cuba... Mi piacciono anche le tue lentiggini!" Probabilmente suonò molto più imbarazzante di così e mi fece venire voglia di scomparire. Lui rise ancora con la sua risata armoniosa e mi rispose, chiaramente anche lui sollevato di rompere il silenzio: "Sì, vengo da Cuba. Tutta la mia famiglia è cubana, ma io ormai ne ho solo i tratti." Si fermò un attimo prima di dire, cercando di coprire un rossore che però non mi sfuggì: "E grazie per le lentiggini, non a tutti piacciono..." Aggiunse un tulipano al mazzo e replicò: "Allora, perché sei così mogio? Avete litigato? È per questo che le porti dei fiori?" Il mio cuore perse un battito, forse due: eravamo arrivati davanti al cimitero e lui aveva fatto la fatidica domanda. Potevo incasinare tutto o salvare ciò che potevo, ma quando sono sotto pressione divento impulsivo. Perciò lo guardai fisso negli occhi, prima di girarmi ed entrare nel cimitero. Nonostante mi dispiacesse doverlo lasciare, mi sembrava la soluzione migliore. Mi sorprese sentire rumore di passi sulla ghiaia dietro di me. Non me ne accorsi neanche, ma rilasciai il respiro che avevo trattenuto fino a quel momento. Continuai per la strada che ormai potevo fare ad occhi chiusi fino alla tomba di mia sorella: una di quelle piccole, con vetro colorato che con il sole brilla di mille sfumature. Sentii un suono strozzato provenire da Lance, dietro di me. Non mi girai, ma immaginavo che nonostante la sua apparenza indistruttibile non fosse abituato a essere faccia a faccia con la morte. Nessuno in verità lo è senza l'esperienza in prima persona. Mi chinai e appoggiai il mazzo che avevamo formato io e il mio compagno di strada sulla tomba. I colori dei fiori e quelli del vetro si richiamavano a vicenda in un modo armonioso. Le nuvole erano grigie e gonfie e in quel momento rilasciarono la pioggia che avevano trattenuto da quella mattina.Non mi mossi nonostante le gocce cominciassero a bagnarmi il viso e i vestiti. Percepii dei movimenti dietro di me e con la coda dell'occhio vidi Lance accostarsi a me. Piano piano si avvicinò sempre di più, fino a sfiorare il mio braccio con il suo. Ormai sulle mie guance le lacrime si mescolavano alla pioggia e, senza farmi più nessun problema, in uno scatto afferrai la mano del ragazzo. Restammo per un poco così, sotto la pioggia che stava diventando più insistente, finché Lance non si spostò davanti a me. Aprì la sua giacca, che gli andava larga, io mi ci infilai dentro e lo abbracciai stretto. Dopo un primo momento di sorpresa, ricambiò l'abbraccio e mi sussurrò all'orecchio due sole parole: "Mi dispiace." Avevano un suono più dolce di quando le pronunciava chiunque altro, sembrava non solo che lo intendesse davvero ma che volesse fare in modo che tutto andasse a posto. Piansi a lungo contro il suo petto e mi calmai, tra i singhiozzi, al battito del suo cuore.


Oggi, quattro mesi dopo, io e Lance andiamo ogni due settimane al cimitero. Scegliamo insieme i fiori e poi restiamo un po' abbracciati davanti alla tomba. Qualcuno dice che stiamo insieme, e posso vantarmi che in effetti è così. Il ragazzo cubano è riuscito a farmi uscire dalla mia bolla di tristezza e siamo uno con l'altro il più sinceri possibile. Lui è la mia ancora di salvezza, il mio angolo di felicità. So che posso contare su di lui e insieme abbiamo superato più di un momento difficile.

Mi piace pensare che la mia sorellina abbia voluto farmi un ultimo regalo prima di andarsene.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 16, 2017 ⏰

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