Parte 2

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Purtroppo l'orologio non ha pietà di nessuno, il tempo scorre inesorabile lasciando poco spazio a pensieri, lamentele e piagnistei ed è subito lunedì mattina.
Riprendere il lavoro è faticoso; non ho intenzione di dare spiegazioni a nessuno, né di rispondere ad interrogatori; l'intenzione è quella di indossare una maglietta con una scritta fosforescente "odio tutti, non v'avvicinate", ma non è presente nel mio guardaroba.
L'aria è tagliente e sul marciapiede ancora si scivola per la spruzzata di neve dell'altro giorno oramai congelata.
Imbaccuccata come un involtino primavera mi dirigo verso la stazione.
Mi sento osservata o forse è solo una nuova psicosi; sono tutti indaffarati e di corsa per soffermarsi a notare una come me.
Sul binario 5 il solito traffico di pendolari; il mio sguardo scruta sul binario opposto, ogni cappello, ogni cappotto scuro ed ogni sagoma somigliante a Marcello.
Gli occhi mi bruciano ancora per tutte le lacrime che, anche stanotte, ho versato e lo stomaco mi si contrae per tutto ciò che a dismisura ho ingurgitato al pranzo domenicale e poi espulso di getto al mio arrivo a casa.
Non riesco a ridimensionare il vuoto che provo ed i sensi di colpa per non essere stata all'altezza delle sue aspettative.
Dopo tre ore di intenso lavoro per un cliente importante della filiale, mi accingo al distributore di bevande per prendere un thè e controllare il flusso di messaggi sul mio cellulare.

Non mi ha cercata nessuno, nemmeno il gestore telefonico che solitamente mi tempesta di messaggi o chiamate.
Guardo con desolazione e rassegnazione il suo profilo sul social network più famoso del mondo. Faccio scorrere le foto, attentamente esamino ogni frase, ogni commento.
Lui é per me una droga, un'ossessione e fatico a credere di non far più parte della sua vita.
Dicono che il tempo aiuti a sanare certe ferite, ma in questo caso sembra che sia scandito a rallentatore, attimo per attimo, dandomi l'opportunità di riflettere, di ricordare ciò che io voglio solo dimenticare.
Nel silenzio di casa, si amplifica di nuovo ciò che si è lievemente assopito durante il giorno tra i tanti incroci di persone; la malinconia accompagna le mie serate.
Con Valentina ho l'appuntamento telefonico fisso e con lei metto a nudo le mie emozioni, piango, mi dispero e le confido la mia ossessione di spiare le sue mosse.
Mi domando chi stabilisce quando è ora di girare la pagina, quando invece è passato troppo poco tempo e si è giustificati ad arrovellarsi il cervello con turbe e paragoni poco costruttivi.
Io sono ora nella fase iniziale, mi sto commiserando, distruggendo e non vedo nel mio futuro alcun uomo che mi possa rendere felice come lui appare nelle foto che posta con lei.
Perché noi donne siamo così masochiste da voler indagare come segugi, fino ad avere la cruda realtà davanti ai propri occhi e ancora una volta fingere di non averla vista?

La mia fase iniziale sta durando a lungo. Oggi è di nuovo sabato e mi ritrovo in pigiama sul divano.
Ripenso a Giovanni e a come anche lui fosse ancora invischiato nella fase iniziale.
Non conosco i suoi tempi; di tutte le parole fuoriuscite tra una portata e l'altra, non mi aveva detto da quanto tempo si fosse conclusa la sua storia.

In quel pranzo non mi sono dimostrata né particolarmente loquace, lasciandolo parlare a raffica senza dargli più di tanto conforto, né particolarmente attenta ai dettagli temporali.
Sicuramente i tempi di ripresa degli uomini feriti per amore sono differenti da quelli delle donne, ma ricordo Giovanni con una sensibilità tale da essere posizionato nella categoria del gentil sesso e quindi di sicuro essere ancora nella fase di chi deve smaltire una forte delusione.
Mi sovviene alla mente un proverbio che descrive la condivisione del male comune come portatrice di sollievo e decido di chiedere al cugino Andrea il numero di telefono di colui che può capire il mio disagio.

Andrea pare reticente, avendo notato il mio comportamento schivo, assente e distaccato durante tutto il pranzo e non avendomi perdonato l'improvvisa fuga senza dare spiegazioni, ma poi si convince che possiamo esserci di sostegno reciproco e mi invia il numero di Giovanni.
Memorizzo il numero e guardo subito la foto di profilo.
Trovo impersonale chi non mette la propria immagine, denotando scarsa stima di sé e poco egocentrismo.
Nel cerchio accanto al numero, un gatto tigrato.
Gli scrivo un messaggio invitandolo ad un aperitivo.
Il dubbio di sbagliare a compiere questa azione mi assale, ma non hanno ancora inventato come bloccare un messaggio inviato per errore e quindi non mi resta che attendere la sua risposta.
Dopo pochi minuti mi ritrovo davanti allo specchio, con la solita montagna di vestiti sul letto, crampi allo stomaco e parecchi ripensamenti per aver fatto la prima mossa.
Il punto di ritrovo è il bar all'angolo della piazza principale della città, che da casa mia dista circa un chilometro e mezzo a piedi.
Mi oriento su un abbigliamento decisamente poco accattivante: stivali, pantaloni di velluto marroni, lupetto a collo alto, cappotto e guanti e, assomigliando ad una guardia forestale, mi avvio all'appuntamento.

Giovanni è fuori dal locale ad aspettarmi.
Il suo aspetto infreddolito ed arrossato denota che è arrivato con largo anticipo.
É ben vestito e sembra più alto di come ricordassi.
Mi tende la mano e galantemente mi apre la porta.
Davanti a croccanti patatine e qualcosa di molto alcoolico, è il mio turno di sfogarmi, di lasciar andare le parole a fiume, una dopo l'altra, di confrontare il mio dolore col suo.

SIMONADove le storie prendono vita. Scoprilo ora