OVERTURE

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La luce del corridoio che dava sulle scale a tromba tremolava instabile, segno dell'imminente cedimento. Il pavimento era freddo sotto un tappeto di lana spessa bucherellato qua e là da una bruciatura di sigaretta o dal logorio del tempo.

A piedi nudi era scesa lungo la prima rampa di scale dell'edificio a torre, per ritrovarsi nella toilette anni '60, con i mobili in plastica bianca che riflettevano la luce innaturale e rossastra della lampada al neon nonostante avessero ormai perso parte della loro originaria laccatura: righe dritte si infilavano sulle superfici, percorrendole, unendosi e intersecandosi come autostrade in miniatura.

Si sedette sulla tavoletta reggendosi con una mano al muro: la stanchezza per il sonno interrotto dopo solo qualche ora e le troppe birre della sera prima le facevano girare la testa fino quasi a darle la nausea. Finì di svuotare la vescica, ma rimase con la testa tra le mani ancora qualche secondo, o qualche ora?

Riaprì gli occhi: vicino ai suoi piedi c'era qualche lattina di birra svuotata e un posacenere traboccante di cicche di sigaretta; sotto di quello una pila di riviste di musica, fumetti dozzinali e qualche calendario pin-up era caracollato al suolo in una valanga informe.

La radio nera e impolverata, poggiata sul bordo della vasca da bagno, aveva un orologio digitale che segnava le quattro e sedici in un rosso sbiadito.

Si sciacquò le mani sfregandole convulsamente, come per togliersi dalla pelle un segno invisibile, e facendo bene attenzione a non incrociare i suoi occhi con l'immagine di se' riflessa dallo specchio nell'anta socchiusa di un armadietto delle pillole piuttosto ben fornito.

Si sfregò gli occhi a fondo, lasciando macchie nere nella superficie bianca del lavabo, poi con il sapone strofinò il resto del viso.

Quando ebbe finito si asciugò con l'orlo della sua stessa maglietta: in quella casa, non aveva mai osato toccare gli asciugamani a fantasie psichedeliche appartenenti a chissà chi, che pendevano dalla maniglia della finestra e dal pomello del cassetto.

Appeso alla porta c'era un calendario a riquadri quadrati: in quello indicante il giorno prima c'era segnato in rosso l'orario e il luogo del concerto. C'erano altre quattro date, prima della fine del mese. In verde, su ogni domenica, c'era una scritta che ricordava a Lonnie di chiamare la mamma. I lunedì erano barrati con una croce nera.

La polaroid di una donna con un caschetto biondo sbucava da sotto l'ultima pagina; sotto c'era scritto "mi manchi, baci, Nora". Chissà a chi era indirizzata.

Forse era proprio per Chase: non fu sorpresa di non sentire alcuna fitta di gelosia attanagliarle lo stomaco, a quel pensiero. Poteva rubare una notte, un mese, a Chase Ellison, ma non sarebbe mai stato suo.

Non che fosse quello che lei voleva, dopotutto.

Stava per aprire la porta, quando sentì qualcuno muoversi, di fuori: qualcuno stava usando uno dei due lavandini adiacenti che si trovavano, inspiegabilmente, proprio fuori della porta del bagno. Poteva essere chiunque: Lonnie, Chas, qualcun' altro della band o un membro della crew. Tutti vivevano in quella casa scalcinata a periodi alterni, andando e venendo a piacere, dandosi il cambio o improvvisando un letto di fortuna su un divano, quando gli altri erano già occupati.

Sentì il rubinetto tacere, finalmente, ma aspettò ancora qualche secondo; non ce n'era motivo, ma non le andava l'idea di incontrare qualcuno, neanche fosse Chase. Preferiva scivolargli al fianco mentre lui ancora dormiva e andarsene via allo stesso modo, indisturbata.

Si decise ad uscire, ma non andò come previsto: un'ombra scura, mastodontica, ora era proprio di fronte a lei. Le dava la schiena, ma comunque la penombra non le avrebbe permesso di riconoscere il suo volto.

Si avvicinò, spostandosi un po' sulla sinistra per intravedere la lampadina, appesa al soffitto come un'impiccato, fare capolino a lato della testa del gigante. Si trovò faccia a faccia con Mak.

Quello si interruppe, con lo spazzolino ancora in bocca, posando su di lei due occhi assonnati; sembrava stupito dal ritrovarsela di fronte, quando quella stupita doveva essere lei.

Mentre tutti andavano e venivano c'erano due stanze, oltre quella di Chase, che non si potevano toccare: quella di Felix, che incuteva così tanto terrore in chiunque da non aver bisogno di chiavi o lucchetti, per proteggere le sue cose, e quella di Mak che, sebbene gli altri fossero abituati a vederlo sparire all'improvviso, spesso e volentieri per mesi, Chase teneva sotto controllo giorno e notte, come un cane ben addestrato ad attendere il suo padrone; nessuno poteva varcare quella soglia.

Non si sapeva perché Mak se ne andasse, ne dove andasse: semplicemente, da un momento all'altro, lui spariva per tornare quando più ne aveva voglia.

Nè si capiva perché Chas gli dovesse tutta quella reverenza immotivata. Era come se ne fosse ammaliato, dipendente. Chase era il frontman del gruppo, la sua immagine; era adorato da tutti, eppure non faceva che parlare di Mak con gli occhi di un bambino sognante.

Uno grande, l'altro smilzo. Erano come due fratelli.

Nessuno capiva il perché di quella strana dipendenza.

La verità era che senza Mak il gruppo non sarebbe andato avanti: era lui che scriveva tutti i testi. Era un tipo silenzioso. Quando Lonnie, oppure Carl il più anziano dei loro due managers, lo interrogava chiedendogli se stava lavorando a qualche nuova canzone, lui rispondeva semplicemente "non ancora" o li liquidava con un "non è ancora il momento"; poi, da un giorno all'altro, arrivava in studio - che in realtà nient'altro era che una cucina sgangherata- poggiando sul tavolo una pila di spartiti e parole per almeno venti pezzi, tra i quali gli altri non dovevano far altro che scegliere.

Forse era per questo, che Chase rispettava Mak incondizionatamente.

Rebecca era rimasta immobile a fissare il ragazzo dal basso verso l'alto: il suo metro e novantatré le rendeva difficile osservarlo negli occhi.

Poi puntò il dentifricio con il dito indice: "Posso?"

Lui glielo passò senza dire una parola, e tornò a spazzolarsi i denti di fronte ad uno dei due lavandini.

'Beck' si mise al suo fianco, spremendosi una dose di pasta bianca direttamente sul dito, da usare come spazzolino. Il sapore della menta, mischiato con l'acqua fredda, la faceva sentire più pulita, curando parzialmente anche i residui della sbronza della sera prima.

Quando ebbe finito di tamponarsi il collo, lui le passò l'asciugamano che fino a un momento prima aveva tenuto appoggiato su una spalla.

"Hanno fatto una buona performance, stasera. Lonnie ha voluto suonare il tuo assolo alla chitarra: non è stato lo stesso, che se lo avessi fatto tu, ma se l'è cavata..."

"Credo che le ragazze aspettassero che uscissi da un momento all'altro.."

"è stata una buona serata."

Mak riprese l'asciugamano, esitando un minuto in più, con il braccio a mezz'aria.

Lei gli intrecciò le braccia al collo in un movimento rapido, issandosi verso la sua bocca come da piccola faceva trai rami degli alberi del parco.

Lo trattenne in un bacio immobile, solo per qualche minuto, per scendersene agile come se n'era salita, strizzandogli la guancia tra l'indice e il pollice ancora per un attimo.

"È stato molto, questa volta.."

Poi gli voltò le spalle per salire le scale a due a due, sparendo di nuovo dietro la porta della camera di Chas. 

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 10, 2017 ⏰

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