Il ticchettio della pioggia scandiva le ultime ore di un giorno di luglio.
Lo psicologo era goffamente seduto in poltrona, dietro la scrivania in ebano inondata da scartoffie, trangugiando quel che rimaneva di un bicchiere di whisky. L' uomo, dal respiro pesante e il colletto della camicia sbottonato e madido di sudore, cercava sicurezza attaccando violentemente le mani callose e sporche di inchiostro ai bracci della poltrona e la schiena alla spalliera, illuminato dalla fioca luce di una abatjour. Le goccioline tamburellavano con intensità crescente contro il vetro della finestra così come i suoi pensieri divenivano sempre più agitati.
Ithaca.
Un nome, una stregoneria.
Ithaca, che quando timidamente apriva bocca per sfogarsi del buco nero dentro di lei che attirava ostacoli insuperabili, assumeva un tono di voce talmente basso che sembrava non parlare, astraendo lo psicologo dalla realtà rumorosa in cui viveva e proiettandolo verso la pace apparente di una dimensione totalmente priva di rumore.
Ithaca, dagli occhi grandi e scuri, in cui lo psicologo si perdeva, cercando disperatamente una soluzione ai problemi della giovane, ritrovandosi improvvisamente in un ignoto e profondo spazio che lo inibiva, lo disorientava del tutto, poiché nulla vi era se non una miriade di stelle.
Ithaca e i suoi problemi a cui, durante ogni seduta, lo psicologo tentava di dare un nome.
Ci provava innumerevoli volte durante il giorno, buttandosi a capofitto in quello spiraglio imprecisato di universo dentro la giovane ragazza dai capelli lunghi e mossi vestita con un tailleur attillato color cammello, che metteva in risalto le belle gambe. Non ne usciva mai con una risposta alle sue domande poiché quello spiraglio era in realtà infinito.
Era stato attratto a tal punto dalla complessità di quel caso umano da diventarne ossessionato.
Ithaca era come un "grande amore" ma, in quel momento, anche la sua più grande nemica.
Osservava la sua figura esile sostare sull' uscio dello studio, in attesa che le venisse detto di accomodarsi. Non si muoveva, pareva quasi non respirare. Lo guardava, scrutando attentamente ogni particolare dell' espressione che il suo volto aveva assunto in quel momento. Ithaca era, in quegli istanti, padrona incosciente dell' uomo impaurito.
"Cosa ho, dottore?". Urla strazianti rimbombavano nella testa di colui il quale si sentiva avvolto da un senso di vuoto ogni volta che incrociava lo sguardo desideroso di risposte della paziente.
-Vada via, signorina, la prego. Vada via.- la supplicava l' uomo. Ma quel corpo fragile restava lì, immobile e in silenzio.
-Vada via, ho detto!- gridava più forte e il tono severo delle sue parole non riusciva a nascondere l' emozione per via delle lacrime che si amalgamavano al sudore rigandogli freneticamente il viso.
-Le ho chiesto di andarsene!- insisteva, nella speranza di venire ascoltato, ma piano piano ogni singolo suono che pronunciava sembrava scomparire tra le quattro mura della stanza, agli occhi dello psicologo sempre più buia e più grande.
Lasciò che la paura lo facesse accasciare con le ginocchia per terra, la testa fra le mani, gli occhi sbarrati, rantolante, mentre supplicava il buon Dio affinché venisse liberato dai suoi tormenti.
E nel pregare sottovoce con parole confuse si sentì fortemente fissato. Ithaca era sopra di lui. Percepiva gli occhi innocenti della giovane superare la superficie legnosa della scrivania e penetrare le sue carni, giungendo al cervello ed insinuandosi lungo la fitta rete nervosa del suo corpo. Dopo che l' ebbe degnata di un' occhiata sfuggente, colma di esasperazione, tutto sparì.
Di nuovo si ritrovò catapultato in quella dimensione di cui Ithaca era inconsapevolmente padrona. La ragazza non aveva più le labbra serrate, ma continuava a guardarlo con la faccia di chi chiede disperatamente aiuto dopo essere precipitato.
-Dottore, cosa c'è che in me non va?- disse lei, scoppiando in lacrime.
-Io... io non so spiegarlo, signorina... Non ne sono capace- rispose lo psicologo, tremando.
-Dottore, cosa c'è che in me non va?- ripeté, facendo un passo avanti.
-Si calmi, signorina. Le assicuro che...
-Cosa!- urlò, rompendo l' atmosfera silenziosa che si era creata.
Continuò a chiedere in modo straziante cosa fosse quella sensazione sconosciuta che vagava dentro di lei, accorciando la distanza dal dottore che, perdendo l' equilibrio, venne abbandonato da ogni forza sbattendo la testa contro il pavimento dello studio.
-Cosa sei tu, creatura dalla forma di donna che vola dal mio cuore alla mia mente lacerandomi le membra, rubandomi il sonno? Di che natura è il tuo potere con cui mi possiedi non permettendomi di rivolgere i miei pensieri ad altro se non a te? Vedi cosa ne hai fatto, tu, di un uomo che svolgeva il suo lavoro con determinazione?
Lei taceva. Lo ascoltava. Lo guardava con quell' espressione da anima in pena ormai caratteristica del suo volto.
Lo psicologo avrebbe tanto voluto sottrarsi al suo lavoro, in quella circostanza. Eppure la misteriosa timidezza della ragazza, la voglia di navigare nel suo inconscio erano più forti dei rischi che stava correndo. Non negava a sé stesso di avere paura di lei. Nemmeno di come si era lasciato travolgere dal suo arrivo, dal profondo senso di sicurezza con cui si era messa totalmente nelle sue mani lasciando un' impronta notevole nell' uomo.
Qualcuno bussò alla porta.
-Avanti!-fece lo specialista, accomodato in poltrona, interrompendo il colloquio con la giovane Ithaca.
La bionda segretaria entrò educatamente, badando a non far rumore mentre camminava su un paio di alti tacchi nuovi, ed ancor più gentilmente avvertì la paziente di essere attesa dalla sua famiglia fuori dalla stanza. Per quella volta la seduta sarebbe dovuta terminare prima del previsto.
Ithaca annuì lievemente e, salutato lo psicologo, si affrettò ad uscire per non far sostare ulteriormente i suoi genitori sull' uscio.
-Margot.
-Si, dottore?
-La radio.
-Meglio un po' di bebop... la gente sta totalmente impazzendo.
Lui guardò la segretaria pieno di curiosità, come per implorarla a parlare e aggiornarlo su ciò che lui non sapeva.
-Sa, dottore, a Rooswel è precipitato... un oggetto strano...-continuò a parlare. Non ne sapeva molto in realtà o, più semplicemente, le sembrava così assurdo che non se ne era curata più di tanto.
-Un oggetto strano?
-Si... lo hanno chiamato "UFO".
Il ritmo incalzante del bebop si diffuse in tutta la stanza ma non riuscì a insinuarsi nell' animo dello psicologo.
-Curioso- pensò ad alta voce- proprio come Ithaca...- sorrise malinconicamente sperando di trovare conforto negli occhi verdi e leggermente truccati della segretaria ma gli si serrò la bocca nell' istante in cui si accorse di starsi specchiando, invece, in quelli profondi della giovane che, ancora una volta, se ne stava zitta davanti a lui con i pugni, che stringevano raffinati guanti di pizzo, poggiati sulla scrivania.
-Ithaca!- balzò in piedi indietreggiando, mentre gli si sgranavano gli occhi.
-Mi liberi, dottore!- esclamò con una sicurezza disarmante. -Ci liberi entrambi!- fece poi, calciandogli una pistola che passata sotto la scrivania fu bloccata dalle punte dei mocassini di cuoio dello specialista.
-Perché signorina, perché? Cosa le prende, adesso?- domandò lui innumerevoli volte incredulo.
Continuavano a guardarsi mentre tutto intorno a loro si incupiva.
Non ci fu più nemmeno la scrivania in ebano a separarli.
Poi lo psicologo fu avvolto dal buio.
Quando aprì gli occhi portò le mani alle labbra, accarezzandole lievemente con la punta delle dita callose a furia di scrivere. Aveva assunto un' espressione davvero bizzarra ma non se ne rendeva conto. Fuori pioveva.
A lui la pioggia non piaceva. Assonnato com' era, piuttosto, prendendo coscienza del fatto che si trovasse ancora sul luogo di lavoro, non ci pensò due volte a ravvivare l' atmosfera prima dell' arrivo dei colleghi con un po' di musica di Gillespie.
Stimava che entro la successiva sera la sua Odissea si sarebbe conclusa e avrebbe potuto far ritorno a casa.
Lo avevano coinvolto nel caso di un ritrovamento estremamente singolare di cui girava voce provenisse dai cosiddetti alieni. Era scettico quando glielo comunicarono e sempre lo sarebbe stato. Anzi. A dirla tutta pensava che tutto ciò di cui si era discusso dopo la caduta del presunto UFO fosse una grande sciocchezza.
Per lui l' oggetto volante era identificato eccome! Era un pallone aerostatico. La gente però, ancora presa dalla fine della guerra, aveva iniziato ad impanicarsi inutilmente. La coscienza del tempo lacerata, frammentata da un contrasto politico, sociale, filosofico e religioso di eccezionali dimensioni non era del tutto guarita.
-Vedo le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia...- disse sospirando, con un antipatico fare da vecchio saggio, mentre badava a non sprecare le ultime due gocce di whisky nel suo bicchiere.
Anche se, a furia di riflettere su quello strano sogno, aveva iniziato a nutrire una strana forma di paura. Forse non era proprio paura. A lui, per una questione di orgoglio personale, piaceva definirla più una conseguenza dell' incubo stesso, come quella sensazione di bruciore alla gola che si prova dopo la prima sigaretta: è una cosa che poi passa.
Con questa apparente consolazione si apprestò ad aprire la porta, per non far attendere chi stava bussando con così tanta insistenza.
-Margot! Apro! Mi dia un attimo di pazienza!-alzò il tono della voce. Margot era la signora che si occupava, in un certo senso, della manutenzione di quell' orrido ed improvvisato posto in cui lavoravano lui e gli uomini della sua equipe. Una sottospecie di segretaria. Conosceva l' ufologo da molto tempo, da quando egli, più per accontentare il padre, aveva intrapreso gli studi da psicologo fallendo miseramente.
Un colpo. Due colpi. Tanti colpi di seguito. Si decise ad alzarsi da quella benedetta poltrona e, con timore, andare ad aprire la porta. Sapeva che non se ne sarebbe liberato così facilmente.
-Buongiorno signorina Ithaca.
-Cosa ho, dottore?
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ITHACA
ContoEra stato attratto a tal punto dalla complessità di quel caso umano da diventarne ossessionato. Ithaca era come un "grande amore" ma, in quel momento, anche la sua più grande nemica.