David Bowie, ovvero uno, nessuno e centomila. Cinquant'anni di carriera all'insegna delle metamorfosi, dell'incessante ansia di percorrere e precorrere i tempi: "Time may change me, but I can't trace time" ("Changes", 1971) è da sempre il suo credo. Un genio mutante, dunque. Ma il trasformismo è solo la più appariscente tra le arti di questo indecifrabile dandy, incarnazione di tutte le fascinazioni e contraddizioni del rock e, in definitiva, della stessa società occidentale. Nessuno come lui ha saputo mettere a nudo i cliché della stardom, il rapporto morboso, ma anche ipocrita, tra idoli e fan, il falso mito della sincerità del rocker, l'assurdità della pretesa distinzione tra arte e commercio. Bowie è stato anche uno dei primissimi musicisti a concepire il rock come "arte globale" (pop-art?), aprendolo alle contaminazioni con il teatro, il music-hall, il mimo, la danza, il cinema, il fumetto, le arti visive. Con lui scompare ogni confine tra cultura "alta" e "bassa". Perché - secondo una sua stessa felice definizione - "è insieme Nijinsky e Woolworth". E' grazie ai suoi show che il palcoscenico del rock si è vestito di scenografie apocalittiche, di un'estetica decadente e futurista al contempo, retaggio di filosofie letterarie e cinematografiche, ma anche dell'arte di strada dei mimi e dei clown. E in ambito musicale la sua impronta è stata fondamentale nell'evoluzione di generi disparati come glam-rock, punk,new wave, synth-pop, dark-gothic, neo-soul, dance, per stessa ammissione di molti dei loro esponenti di punta.
Ma Bowie è anche la prova definitiva che la critica rock è una scienza inesatta. Nessuno come lui ha fatto accapigliare critici e pennivendoli del globo. Oggi, all'alba di un nuovo millennio, sono rimasti davvero in pochi a contestarne il ruolo di innovatore e precursore del rock. Pochi, e spesso in malafede. Perché Bowie è tra i più amati, ma anche tra i più odiati miti della musica popolare contemporanea. Difficile da metabolizzare - specie per le frange critiche meno provviste d'ironia - il suo atteggiamento da primadonna altezzosa, ma soprattutto la sua eterodossia rispetto ai sacri dettami del rock: il suo uso spregiudicato dell'immagine, la sua ostentata artificiosità, il suo voler essere artista d'avanguardia vendendosi al pubblico come una starlette di Broadway.
Londra era una polveriera. La droga imperversava. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali. Ci andavo sia per l'esperienza sia per riempirmi le orecchie. Per il volume alto, per ascoltare Georgie Fame, per scoprire il jazz.
(David Bowie)Il decollo di "Red Orb"
Il ritratto dell'artista da giovane è quello di un ragazzino inquieto della middle-class, di nome David Robert Jones (8-1-1947), che sbarca il lunario tra studi e sogni nel sobborgo londinese di Brixton. Il padre, Haywood Stenton Jones, da poco tornato dal fronte, è impiegato; la madre, Margaret Mary Burns, lavora come cassiera presso un cinema e ha già un figlio dal primo matrimonio, Terry, malato di schizofrenia: sarà ricoverato a lungo in un ospedale psichiatrico e morirà suicida nel 1985. La malattia del fratellastro rappresenterà a lungo un'ossessione per David, che vivrà sempre con la paura di impazzire a sua volta; quasi a voler esorcizzare la follia e sublimando il turbamento per la morte di Terry, scriverà nel 1993 il brano "Jump (They Say)".
Nel 1957 la famiglia Jones si sposta nel quartiere di Bromley; David studia alla Technical High School per diventare grafico pubblicitario. Un giorno, all'uscita da scuola, ha uno scontro con l'amico George Underwood che lo segna per sempre: l'occhio sinistro lesionato assume un definitivo colore rossastro che gli vale l'impietoso soprannome di "red orb" da parte dei ragazzi del quartiere.La "Swingin' London" vanta una scena rock sfavillante (Beatles, Rolling Stones,Pink Floyd, Who, Animals, Yardbirds). Il giovane David ne è affascinato: canta, suona il sax e prova a sfondare alla guida di gruppi underground come Manish Boys, The Konrads, King Bees e Buzz. Sogna di diventare il nuovo Little Richard, suo idolo fin dall'infanzia. "Londra era una polveriera - racconterà a Les Inrockuptibles - La droga imperversava. Le pasticche erano appannaggio dei mod. Vivevano solo grazie alle anfetamine che permettevano loro di ballare e di trascinarsi per tutta la notte. L'eroina arrivò più tardi, alla fine degli anni 60. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali. Ci andavo sia per l'esperienza sia per riempirmi le orecchie. Per il volume alto, per ascoltare Georgie Fame, per scoprire il jazz".
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DIARIO DI UN RAGAZZO RIBELLE
General FictionLa moda passa, lo stile resta, l'idea del ragazzo ribelle ha sempre affascinato e continua ad affascinare tutte le adolescenti e non. un esempio su tutti..James Dean.