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- Perché? Non lo so. Probabilmente perché adoro perdere tempo, dissimulare. -

- Perché perdi tempo?- Mi chiese guardandomi attraverso quei fondi di bottiglia che chiamava occhiali.

- Non lo so. Probabilmente perché sin dalla nascita ci convincono di avere tutta la vita davanti, ma è scontrarsi con essa il problema. - Accesi una sigaretta. - Ma cos'è la vita? Mi chiederà lei Dottore. Credo sia il lasso di tempo che racchiude il dolore nel quale ti viene concessa la libertà di sperare di diventare felice. -Inspirai- Delle volte mi domando il perché delle domande, farsele crea problemi da sempre, che spesso continuando a riflettere si risolvono; questo però non succede quando i problemi diventano i nostri. Soffrire per qualcosa ha senso? In questo periodo mi sono interrogato più volte sul concetto di sofferenza: aver voglia di uscire di casa alle due di notte quando c'è solo silenzio e urlare sperando che le tue grida raggiungano il luogo da te scelto, oppure è solo quello stato che raggiungiamo quando non abbiamo il coraggio di comprendere che la felicità non esiste. -

Il dottor Lini si accese una sigarette anche lui: nonostante non lo avessi mai visto suonare, i suoi denti grigi e la sua voce bassa e roca, risultarono un indizio che però non fui capace di cogliere, se non vedendolo fumare.

- Non scrivo più da un sei mesi. Più o meno da quando sono qui.- dissi.

- Beh, il lavoro porta via molto tempo. Lo stress per il trasloco. La lontananza dalla tua ragazza, Denise.-

- Teoricamente queste situazioni dovrebbero aiutare no? Intendo dire che vivere momenti di sconforto e di stress dovrebbe risvegliare la vena creativa. Almeno così credo.-

Annui e le sue labbra dissero "Già, già".

Dopo qualche istante di silenzio, guardai la sua scrivania. L'abatjour aveva ancora l'accensione con il filo che pendeva, fatto di palline di plastica, qualcosa stile anni 30. Sull'angolo sinistro, dal mio punto di vista, una serie di scartoffie ed un block notes con qualche scritta illeggibile: probabilmente anche gli psicoterapeuti, come i medici, frequentavano dei corsi per criptare i loro appunti, in modo che il paziente non possa leggere ciò che scrivono riguardo lui. Credo. Almeno in un libro d'azione sarebbe così: cercano sempre di trovare qualche sospetto in qualsiasi cosa, quando in realtà gli psicologi ed i dottori scrivono in questo modo solo perché non hanno tempo di stare pensare alla calligrafia. Oppure no?

Alla mia destra c'era una foto volta in tre quarti, ma potei intravederla attraverso lo sportello aperto dello scaffale in cui erano tenute tutte le medicine che il dottore, laureato anche in psichiatria, poteva somministrare. La foto mostrava il volto sorridente di una giovane donna, sulla trentina probabilmente, con un naso pronunciato e dei buchi sulla faccia, per colpa di una forte acne giovanile: non così tanti da risultare fastidioso; aveva gli occhi marroni come la cornice in legno (tono che dominava all'interno della stanza); la foto era in primo pieno e la ragazza sembrava stesa s'un prato in una giornata di primavera.

- Chi è la ragazza nella foto?- chiesi.

Si avvicinò alla foto e la prese in mano. - Lei?- mi chiese. - Lei è Michela, la mia bellissima Michela.- disse.

Dalla sue parole capii che era successo qualcosa a quella ragazza che pensai fosse sua figlia. Decisi di non investigare oltre, d'altronde quello in terapia ero io.

- Perché è venuto qui, Gabriele?- mi chiese.

Mi voltai verso di lui e le mie sopracciglia si arricciarono, come preparazione al discorso, ma il mio sguardo era ancora fisso sulle piastrelle in cotto che rivestivano il pavimento, sintomo che ero ancora intento a formulare un discorso che avesse un senso logico.

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