la paura non è reale

2.1K 163 166
                                    





capitolo 10
LA PAURA
NON È REALE



Frenò di colpo e, se non avessi messo le mani avanti, sarei senz'altro finita contro il parabrezza.

Lo fulminai con lo sguardo e lui non sembrò curarsene

Uscì dall'auto e sbatté la portiera.

Lo stesso feci io, per poi notare che era già parecchi metri avanti. «Dove sono finiti i gentiluomini che aprono le portiere?», gli dissi, con il tono di voce pieno di sarcasmo, mentre cercavo di stare al passo con lui, correndo per raggiungerlo.

Mi guardò da sopra una spalla. «Hai sbagliato favola».

Solo quando ci allontanammo dall'auto mi accorsi che l'aveva parcheggiata sotto dei folti alberi, tanto che sarebbe stato impossibile notarla da una certa distanza. Non solo. Quegli alberi, oltre alla sua macchina, nascondevano alla vista anche una grossa cancellata rossa, a pochi metri da lì, tenuta chiusa da un paio di grossi catenacci, essendo che era priva di qualsiasi serratura.

«Stavo scherzando», replicai in un sussurro.

Afferrò il metallo scuro e lo spinse in avanti quel poco sufficiente per riuscire a passare, prima di lasciarlo andare.

Non avrei mai creduto di avere i riflessi così pronti e mi stupii di me stessa quando, anziché ritrovarmi il cancello dritto in fronte, riuscii ad afferrarne una sbarra e a passare prima che si richiudesse.

«Grazie», dissi, di nuovo sarcastica, riferendomi a come sarei potuta finire al pronto soccorso. «Seriamente, grazie», ripetei dopo poco, a voce più bassa.

«Finiscila e seguimi», mi rispose, quando ebbe rimesso le catene al loro posto, e accelerato di nuovo il passo.

«Ti dispiacerebbe spiegarmi dove stiamo andando?», gli chiesi, quando lo raggiunsi di nuovo. Il disperato bisogno di ricevere una risposta era ben percepibile dal mio tono di voce, ma nient'altro. Nessuna paura o preoccupazione. Neanche l'accenno di un pensiero negativo, dell'idea che mi stesse conducendo in qualche luogo più isolato per farmi del male, neanche per un secondo.

Lo seguii come se fossi nata per arrivare fino a lì.

Non mi rispose. C'era da aspettarselo.

Non si voltò neppure a guardarmi, se non quando raggiungemmo un alto muro in pietra. Lo colpì con una mano aperta.

Corrucciai la fronte, mentre rimasi ad aspettare per qualche istante che si aprisse, come per magia, un passaggio segreto, azionato da quel suo gesto così banale, da quella pressione nel punto giusto, che solo lui poteva conoscere.

Nulla si mosse, ovviamente. Era soltanto un muro, uno qualsiasi. Al ché, i miei occhi schizzarono sui suoi, non appena mi accorsi che stava per chiedermi di arrampicarmi.

Non se ne parla, esclamai nella mia testa.

«Ti muovi? Non ho tutto il giorno», mi disse.

«Fai sul serio?», gli domandai, subito dopo, ricordandomi com'era stato facile scivolare da una scala a pioli che, per quanto fosse precaria, quantomeno aveva dei pioli, oltre che due corrimani in metallo a cui aggrapparsi.

Non mi rispose. Rimase a guardarmi senza dire una parola.

A quel punto, a dire il vero, già sapevo che non sarei caduta. O meglio, che lui non mi avrebbe permesso di cadere. Eppure, l'evenienza che si trovasse a dovermi afferrare di nuovo fece solo sì che io avessi ancora meno intenzione di salire su quel muro.

THE WOLF'S DEN: La Tana del LupoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora