L'urlo

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Era un assolato pomeriggio d'estate e una cappa di umidità filtrava i raggi del sole.

La Fiat Seicento correva per le strade di campagna e sobbalzava a ogni buca del terreno dissestato.

I campi di grano, i vigneti e i frutteti si stagliavano infiniti e desolati all'orizzonte.

«Puoi andare un po' più piano per favore?» disse Fabiola, le mani premute sul cruscotto per cercare stabilità. I lunghi capelli castani le svolazzavano davanti alla faccia e le impedivano di vedere.

«Mi viene da vomitare.»

«Non esiste proprio, se rallento non circola abbastanza aria dai finestrini. Si muore di caldo. Dai, siamo quasi arrivate.»

Ancora poche centinaia di metri e un piazzale erboso offrì possibilità di sosta.

«Eccoci, qua è perfetto. Non ci vedrà nessuno. A meno che quel rudere non sia abitato» scherzò Marta.

Di fronte all'auto si stagliava una casa diroccata presidiata da rovi e arbusti. Sulle sue mura pericolanti si arrampicavano tenaci edere.

Le finestre avevano i vetri rotti, le persiane di legno erano talmente incrinate che sembravano stare lì lì per staccarsi dai cardini. La porta d'ingresso non c'era più. La sua vecchia sede era una cavità poco rassicurante oltre la quale era tutto buio.

«Ok, accendi» disse Fabiola.

«Sei pazza? Mia madre sentirà la puzza. Andiamo lì dentro a fumare, che di sicuro non ci vedrà nessuno.»

«Lì dentro? Sei scema, quel rudere ci cascherà addosso! Scendiamo dalla macchina e fumiamo qui. Siamo nel mezzo del nulla, chi vuoi che possa vederci?»

«Non si sa mai, potrebbe sempre sbucare un contadino impiccione. Dai non fare la cacasotto, entriamo».

Fabiola si lasciò convincere. D'altronde Marta era la sua unica amica, non voleva contraddirla. Prese coraggio e la seguì cercando di camminare nei punti in cui l'erba era più bassa. Sulla soglia rallentarono e si consultarono con gli occhi, prima di decidersi a spostare le fronde spinose che proteggevano l'ingresso per infilarsi nella bocca del rudere.

Il pavimento era coperto dei calcinacci che erano venuti giù dal soffitto disastrato. La piccola stanza era l'unica del pianterreno.

Una scala, che a nessuna delle due venne in mente di salire viste le condizioni di instabilità, portava al secondo piano, sicuramente un altro locale unico: un tempo non era raro che le famiglie vivessero ammassate in un paio di stanze appena.

«Per me qui è pericoloso: rischiamo che il soffitto ci crolli sulla testa. Torniamo fuori» suggerì Fabiola.

«Ma smettila! Basta che ci teniamo in un angolo e non ci accadrà nulla. Questa casa ha resistito a un secolo di incuria, vuoi che cada giù proprio ora?»

Frugò nella borsetta e trovò il pacchetto di sigarette. Dentro c'era uno spinello già confezionato. Lo prese.

«Accendi» disse e lo porse a Fabiola consegnandole anche un accendino rosso fiammante.

Fabiola prese il tutto. Si mise tra le labbra il joint, fece fuoco e si mise ad aspirare.

Marta la osservò celebrare il rito e attese il suo turno camuffando l'impazienza con un aria di compiacimento.

Le ragazze avevano smesso di parlare scoprendo l'innaturale quiete di quel posto. Tutto era fermo, calmo, pacifico... troppo, come se si trovassero in un luogo senza vita.

Non un soffio di vento, non un canto di grilli, non un battiti d'ali. Nulla si udì per lunghissimi momenti.

Niente di niente.

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