Per strada ci chiamavano i figli di nessuno, perché è dal nulla che siamo rinati.
A scuola ci chiamavano gli zero in condotta, perché l'unica cultura che conoscevamo era quella della strada.
Tra di noi eravamo gli invincibili, perché non c'era stato un solo giorno in cui non c'eravamo sentiti padroni del mondo, padroni della città, padroni di noi stessi.
Non credo che fossimo una famiglia, o almeno non credo che lo siamo mai stati veramente, ma quando qualcosa andava male, quando quella forte e lucente armatura che indossavamo ogni giorno cominciava ad arrugginirsi,era da loro che io andavo.
Eravamo così diversi l'uno dagli altri che a volte non capivo perché fossimo così tremendamente morbosi l'uno con l'altro. In particolar modo io.
Si dice che l'amore può essere di diverse forme, ma il mio era un amore malsano.
Ero così dipendente da quei sette ragazzi che alla fine credo di essermi innamorata di ognuno di loro, anche se a volte non ero altro che un giocattolo da mostrare, anche se a volte ero l'amica che li capiva o con cui si sentivano meno soli la notte, anche se a volte sono stata un amante nelle notti di follie e anche se solo una volta sono stata qualcosa di vicino all'amore.
Ognuno di noi aveva una storia diversa da raccontare, ognuno di noi aveva vissuto in una realtà che ci stava toppo stretta, che ci feriva. Una realtà da cui scappavamo attraverso le mattine solitarie in cerca di nuovi nascondigli, attraverso i pomeriggi passati a bere e ridere fino a che non si faceva sera e si andava in giro per la città, nelle discoteche, alle feste fino a quando con il suo passo felpato non arrivava la notte che si insinuava tra noi con i suoi segreti, le sue paure, le lacrime, le sue carezze ed i suoi baci nascosti, e quelle confidenze.
Ognuno di noi era unico e solo, ma insieme eravamo fuoco.
Ognuno di noi voleva essere qualcun altro, vivere la vita di un altro, magari scappare o morire ma alla fine era attraverso quella corsa terribile verso qualcosa di irraggiungibile che ci teneva vivi, che ci teneva insieme.
Loro erano così travolgenti che a volte durante quella corsa frenata io cadevo, cadevo e cadevo ma poi mi avevano detto che il sangue alle ginocchia significava che ero lì in quel momento, che la mia mente era un forziere di tesori, e che il mio cuore batteva all'impazzata.
Mi avevano detto che dovevo ritornare in me, che dovevo ricominciare da capo, che dovevo cambiare città perché quell'amore malsano che avevo per loro era diventato un veleno potentissimo che pian piano mi stava distruggendo da dentro.
Come potevo pensare ad una mia vita senza loro? Come potevo abbandonare la mia isola che non c'è? Come potevo semplicemente smettere di amare qualcuno? Noi ci siamo sempre appartenuti, e sebbene io non sappia più cosa sia successo loro, sebbene io non sappia più dove siano finiti so che qualcuno di loro tornerà a prendermi. Perché da quando non ci sono più ho smesso di vivere e la mia giovinezza è morta con loro.
"Sei ancora qui?"
Come potrei andarmene?
"Questa è casa mia"
Da lontano si vede una striscia azzurra e poi sento il profumo del mare, da quando non ci sono più vengo spesso qui. Mi siedo a terra chiudo gli occhi e comincio a ricordare. La mia mente scatta velocemente da un ricordo all'altro ed il mio viso non è più lo stesso quando coraggiosamente riapro gli occhi e lo specchio davanti a me rivela lacrime amare.
"Dobbiamo andare"
Ma io vorrei per sempre rimanere lì, morire tra i ricordi e sperare che un giorno quando riaprirò gli occhi li troverò ancora lì davanti a me, con i loro sorrisi, le birre in mano, la musica in sottofondo, i loro insulti, le parolacce, il biliardino, la nostra chitarra, la console e le loro mani, le loro labbra, i loro pensieri, i loro pianti, quegli oggetti rotti sul tavolo la sera in cui ci ubriacammo così tanto da stare male dentro, semplicemente loro.
"Perché ti piace questo posto?"
E' la prima volta che mi fa quella domanda, forse in un altro momento le avrei accarezzato la testa, messo un braccio intorno alla spalla e le avrei detto che non aveva importanza. Ma sono passati quindici anni da quando quella stanza è stata dimenticata, ed io mi sento pronta a dirglielo.
"Perché qui è nato un angelo, bambina mia"
Iris non capisce subito la mia affermazione, ma poi vedo spuntare un sorriso sul suo viso, i suoi occhi si accendono e subito inizia a guardarsi intorno, poi sento un tuffo al cuore quando si gira dalla mia parte e mi sorride.
"E' qui che sono nata?"
Anche se quasi non vivo più da quando sono rimasta sola, Iris è l'unica cosa che mi lega a loro e che mi fa sperare che un giorno almeno uno ritornerà da me e ci porterà via di qui.
Iris è bella come il sole, fresca come la primavera e profonda come il mare e mi ricorda ogni giorno che passa suo padre. Il suo sorriso, il modo di parlare, il suo modo di arrabbiarsi, i suoi pensieri. Tutto mi ricorda lui.
"Quello era il posto preferito di tuo padre"
Dentro questo vecchio vagone, c'era un'apertura e da lì si vedeva il mare. Da lì si vedeva la speranza. Ad Iris il mare era sempre piaciuto, una volta mi aveva detto che il mare era una grande risorsa perché ci dava la possibilità di sognare.
"Tuo padre amava il mare come te"
Iris non smette di sorridere, non le avevo mai parlato di suo padre, non sapeva neanche come fosse fatto perché non avevo il coraggio di aprire quel vecchio baule che avevo in soffitta. Ed ora sa che lei ha qualcosa in comune con lui.
"E' davvero un posto bellissimo"
STAI LEGGENDO
RUN
FanfictionSono passati quindici anni, eppure quell'amore profondo che aveva per ognuno di quei ragazzi non ha smesso di perseguitarla. Aveva amato ognuno di loro in ogni modo possibile, in particolare aveva amato lui e lo aveva amato così tanto da voler lasci...