CAPITOLO 1

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Era il dieci agosto del 1995. Il sole batteva sul ponte esterno della nave incrociando ombre e luci come fossero schemi geometrici. Io ero lì, seduta in un angolo, rannicchiata con le mie paure verso l'ignoto, tenendo stretto al petto lo zaino da viaggio e il viso, cotto dal sole, tra le mani. Osservavo i gabbiani così liberi e giocosi, sognando per un attimo di essere tra loro, mentre sbattono le ali per rimanere in volo. Sono arrivata in Italia all'età di sei anni. Non parlavo, ma ascoltavo, osservavo tutto e percepivo ogni cosa, ogni stato d'animo, ogni attenzione e disattenzione. Elsa, la mia nuova mamma, era dolce e premurosa, mi aveva voluta, cercata e a modo suo amata. Con cura si dedicava alla mia igiene che all'orfanatrofio era piuttosto spartana, non avevo mai visto un bidet e avere una spazzola per capelli personale mi sembrava un sogno. Avevo una capigliatura spettinata, tagliata male e sembravo un maschietto da tanto era corta, in Russia ci rasavano per evitare i pidocchi, ma Elsa sapeva come fare, era la parrucchiera più brava di tutta l'isola. Giacomo, meglio conosciuto in paese come Geco, è stato un padre burbero fin dall'inizio, un artigiano dalle mani callose che non penso desiderasse una figlia arrivata già grandicella e che non gli somigliasse minimamente. Mai un abbraccio, mai un sorriso, mai un gesto verso di me, ma non mi serviva, avevo mia madre. Ero solo una bambina che cercava affetto, ma con lui, trovavo un muro aggressivo, pronto ad umiliarmi per ogni minimo errore. Non riuscivamo ad instaurare un rapporto, era più paterno con i figli dei vicini che con me. Ricordo un Natale, avevo otto anni, mi piacevano le luci colorate che i commercianti esponevano in piazza, adoravo i pacchetti lucidi infiocchettati e l'alberello fatto accanto alla finestra della sala, con le palline oro e argento. Geco, che rientrava sempre un paio d'ore dopo il tramonto, quella sera della vigilia portò con sé alcuni sacchettini bianchi e rossi che distribuì ai bambini del vicinato, me compresa, certamente, ma con loro spese un sorriso, una buona parola. Io rimasi lì col pacchetto in mano, mentre lui rientrava infreddolito a causa della tramontana. Infondo al mio cuore però il sentimento o non sentimento era reciproco. L'amore di Elsa mi bastava per andare avanti, per crescere e muovere i primi passi nella nostra piccola realtà isolana, dove il mare risplendeva al sole e i delfini saltavano dietro le barche dei pescherecci. Le cose col tempo non miglioravano, anzi. Un mese dopo il mio compleanno dei dieci anni, mia madre adottiva si ammalò. Non potevo comprendere il perché, avevo tante domande, una fottuta paura e la speranza che non arrivasse mai quel momento, ma il momento arrivò, arrivò dolce e materno, con le parole di Elsa che mi dicevano lente e flebili " Domani Kamila, quando non ci sarò più, apri la piccola scatola di latta che troverai sopra l'armadio, lì ci sono le tue origini, troverai degli oggetti che ti ricorderanno il passato, se ne sentirai il desiderio, prova a ricostruire, non sei sola a questo mondo" le sue labbra si erano chiuse su queste parole " non sei sola a questo mondo". Il giorno dopo presi la scatola, ma non ebbi il coraggio di aprirla. La riposi nel cassetto della mia camera, dimenticandola per paura. Geco non mi aveva mai voluta, per lui, adottare una figlia era stato un capriccio di Elsa, non era fatto per fare il padre e lei lo sapeva bene, ma a modo suo amava quella donna esile, esile e così si rese disponibile a fare tutta la trafila burocratica per potermi adottare. Ed eccoci qui, dopo anni di silenzi e frasi dette a metà rabbiosi e rancorosi, disadattati in questa vita che ci va stretta. Alle spalle lascio molti ricordi da dimenticare, lo sguardo cupo e depresso di mio padre, le sue mani tutt'uno con la solita bottiglia di grappa e l'odore di muffa salmastra che in casa mi toglieva il respiro. Dopo la morte di mia madre, nulla è stato più come prima. Lei era così materna, così divertente che riempiva con la sua grazia ogni angolo di casa, quando ancora casa, per me significava qualcosa. La malattia l'aveva spenta giorno dopo giorno, ora dopo ora e lui, mio padre, si spegneva con lei, dimenticandosi di sua figlia che aveva bisogno di conforto, di risposte e di una presenza forte che le insegnasse di nuovo la vita. I primi anni sono stati i più duri. Senza di lei, insieme a lui. Io crescevo e lui invecchiava rapidamente. I bruni capelli divennero presto grigi e radi. Non dimostrava più la sua età. Geco si era ripromesso di darmi una casa e istruzione così quello stesso anno, nel '95, a luglio terminai gli esami di maturità. Il lavoro per lui andava male, la bottega era sporca, buia e la gente preferiva andare altrove, non più da Geco il tuttofare. Le nostre discordie e i nostri litigi mi facevano sentire le mura di casa una prigione soffocante. Lo odiavo quando di sera, riverso sul tavolo blaterava parole, mugugni comandati dall'alcol. Così il nove agosto gli scrissi una lettera, parlando del dolore, della sofferenza, della mancanza di Elsa e di quanto lui fosse stato assente nella mia vita. Le parole che scrivevo mi facevano male, ma erano inevitabili per poter allontanare tutta quella rabbia che portavo dentro. Abbandonai la busta sul tavolo della cucina, sotto la bottiglia di grappa e chiusa la porta alle spalle respirai tutti i pensieri di libertà che avevo in corpo. Ero stufa dell'isola. Un'isola stretta, provinciale che mi faceva sentire prigioniera di un mondo non mio, non più adatto a una ragazza di diciannove anni che cercava delle risposte per capire la vita. Salire sul traghetto che mi avrebbe condotta sulla terra ferma, fu per me uno spiraglio di rinascita. Avevo il terrore di affrontare la vita senza qualcuno che mi amasse e da cui tornare, ma dovetti fare quella scelta per rispetto a me stessa, per crescere davvero e rifarmi una vita. Geco mi aveva dato un tetto, gli ero grata per questo, ma mi mancava tutto il resto. Così, seduta sul ponte mi lasciai andare a sogni e aspettative, credendo che tutto là fuori sarebbe stato meglio della mia piccola isola nel mare. Strinsi ancora a me lo zaino perché conteneva qualcosa di prezioso, la scatola che Elsa aveva custodito per me. Non avevo mai avuto il coraggio di aprirla, ma quella sera avrei dovuto, per scoprire chi fossi veramente.

Mi ero spinta molte volte vicina alla verità, ma quando tenevo fra le mani quella piccola scatola con disegni bohemienne, il mio corpo iniziava a tremare e gli occhi s'inumidivano di lacrime. Del mio passato ricordo poco, sono arrivata in orfanatrofio molto piccola, troppo piccola per dare un volto ai miei genitori biologici, troppo piccola per instaurare un legame con le mie origini. Potrei avere dei fratelli, delle sorelle, ma sono solo mie flebili speranze. Mentre l'aria marina mi accarezzava i capelli color oro, il sole inondava il ponte della nave riportandomi alla realtà. Un sospiro profondo e carico di eventi mi accompagnava per qualche secondo prima di vedere il porto in lontananza. Napoli vista dal mare era suggestiva, mi pareva tutto molto grande e le navi da crociera sembravano grattacieli galleggianti, non ne avevo mai viste così da vicino. Ogni tanto dalla mia piccola isola le scorgevo in lontananza e immaginavo come sarebbe stato essere lì, in mezzo al mare, immersa tra balli e cene di gala.  Invece, chi l'avrebbe mai detto che la mia vita sarebbe ripartita dalla terraferma? Napoli era lì davanti ai miei occhi increduli e mi aspettava. 



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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 20, 2017 ⏰

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