Atto Tre

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L'ufficio di Aurelio De Laurentiis non era soffocante come quello dello psicoterapeuta Mauro Petrazzuolo, ma ci mancava poco affinché lo fosse. L'arredo era in legno di betulla chiaro e acciaio e il banco su cui si svolgevano i famigerati fatti formali era della stessa grandezza della tavola rotonda di Re Artù. Quando c'era da scrivere molto, i collaboratori ne riscaldavano tutti i posti. In terra un timido tappeto di lana color panna spezzava come un neo su pelle bianca l'armonica trama grigia del pavimento in grès porcellanato. Le finestre erano così ampie da far entrare metà del fantasmagorico panorama della "vivace" Castel Volturno e, infatti, il giorno del primo accertamento esso era lì sopra, rasserenato per caso da qualche raggio di sole. Le fotografie attaccate alle pareti mostravano un sorridente signor Presidente di dieci anni prima, di quando acquistò il cartellino del Napoli. Insieme a lui, erano immortalati i suoi famigliari, anch'essi rinvigoriti dalla gioventù ormai bruciata.

Il quadretto sembrava pacifico e rilassante, l'ambiente valeva come una piccola spa, ma quella larga stanza, una volta chiusa, rassomigliava soltanto una gabbietta per uccelli. Era davvero bizzarro come due posti completamente diversi potessero rievocare le medesime sensazioni.

Lorenzo aveva notato più dettagli architettonici durante il giorno del primo accertamento che tutto il resto delle volte in cui aveva approfondito e firmato contratti con Aurelio. Come era possibile che il suo babbo avesse tanti soldi da dargli ma mai un euro per gestire meglio il centro sportivo? Pensò che fosse il caso di parlargliene con Luigi il dì successivo, quando sarebbero andati a cenare dalla signora Jacqueline Marie Baudit, la mamma del Napoli.

Ah, la signora Jacqueline! Lei e suo marito: una cosa sola! Così simili ma così diversi, proprio come Dries e Lorenzo. Le abitudini famigliari potrebbero essersi tramandate tramite genoma, tant'è che quando la donna aveva voglia di conversare con Lorenzo, si appoggiava timidamente sul tavolo del salotto e si lasciava andare a qualche frase di circostanza, ovverosia qualsivoglia aggregato di vocaboli che si dice o per imbarazzo o per intrattenimento prima del dessert.

Quando Edoardo scendeva dal bordo della scrivania e si aggiustava la giacchetta, significava che lo studio stava per chiudersi dietro alla sua schiena e che fosse arrivato il momento per il capo e i suoi ospiti di accomodarsi e chiacchierare un po'.

« Allora? Come stanno andando le sedute? »

Le sedie dello studio De Laurentiis erano molto più comode di quelle cassapanche con schienale in formato solitudine che ambo i calciatori avevano avuto la gioia di provare durante le ultime due sedute di coppia in Via Pessina− quelle squadrate e vagamente scricchiolanti dello studio di consulenze del signor Petrazzuolo.

Non gli capitava spesso, a Lorenzo, di rammentare momenti della sua fanciullezza, ma in quel frangente avrebbe preferito tornare ai tempi in cui rimorchiava le ragazze dell'alberghiero sullo scalino della Scimmietta, proprio perché quel gradino di selce era molto più morbido e sopportabile della tortura psicologica a cui lo stavano sottoponendo il suo papà adottivo e il suo compagno di vita.

La mano sinistra era, per giunta, ancora secca e asciutta e questo voleva dire che sarebbe dovuto passare ancora un bel po' di tempo prima di tornare a casa. Dries gliela stringeva forte; la prima volta che lo fece notò come i loro palmi passassero lentamente da secchi e asciutti a morbidi e umidi.

« Benissimo, stiamo scoprendo molto l'uno dell'altro. »

Dries esordì con il collo rattrappito per la tensione, poi si rilassò dopo l'ennesimo sorriso incoraggiante riservatogli, questa volta, da Aurelio. Per lui la circostanza era così delicata da avere la tremarella per le avventate reazioni di Lorenzo. La prima cosa di cui fu allertato all'inizio del percorso di consulenza riguardava proprio l'atteggiamento ostile che il napoletano avrebbe avuto nei confronti della terapia di coppia. Gli consigliarono di assecondare i suoi impicci e di non stimolare il suo nervosismo nei momenti di confusione. Non perché potesse avere reazioni fisiche. In fondo il problema era completamente diverso... Gli dissero che, chi è così in difficoltà da non accorgersene nemmeno, non accetterebbe mai aiuto altrui. Perciò stringeva la mano, per fargli capire che qualunque idea avesse di ciò che stavano facendo, lui avrebbe comunque apprezzato lo sforzo.

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