LEZIONE 2:

145 7 0
                                    

La Verità è un punto di vista e il punto di vista si può scegliere.


In seguito a quello strano episodio mi ritrovai a gironzolare sempre nello stesso parco; in effetti non solo comprendeva un semplice campetto da basket, ma piccolo e trascurato com'era, aveva pochi e rarissimi frequentatori. Insomma era il tipico luogo di cui avrei potuto innamorarmi: silenzioso, solitario e quasi selvaggio. Incontrai ancora quella ragazza, anzi con la scusa che ci passava attraverso quasi tutti i giorni, ogni volta faceva il giro completo per scovarmi. Acchan, così mi si presentò, era più solare di quanto mi sarei aspettato, sorrideva spesso e mi raccontava le sue mattinate a scuola o i pomeriggi con il cugino, a seconda che riuscisse trovarmi nel viaggio da scuola a casa di quest'ultimo o in quello di ritorno verso casa propria. Aveva la mia stessa età, ma a differenza delle mie compagne di scuola, o almeno dell'idea che avevo di loro, era una ragazza sveglia e simpatica. Per quanto arrugginita potesse essere la mia capacità di comunicazione, in qualche modo tentai persino di dimostrarle che apprezzavo la sua compagnia. Fortunatamente lo aveva già capito da sola. Un paio di volte si presentò persino con dei dolci da mangiare assieme, apprezzai che non fossero un regalo per me, ma una sua gentile concessione di qualcosa che le piaceva molto, affinché anch'io potessi apprezzarlo e "Chissà che magari non ti addolcisca un po'!". Mi ritrovai per casa la sua sciarpa, in cambio dei guanti che mi aveva indebitamente sottratto una mattina in cui faceva troppo freddo e per fatalità ci eravamo trovati entrambi a passeggiare nel vialetto prima della scuola. Era indiana, di uno strano velluto, a larghe bande di colore, verde, oro e blu, insomma qualcosa che credevo non avrei mai potuto indossare, prima che me la mettesse addosso lei stessa.

Così passarono i mesi e arrivò il Natale; una festività che avrei disprezzato in effetti come tante altre, se non per l'incredibile acuirsi di quel fastidio persistente, chiamato solitudine. Come di consueto i miei genitori partirono con destinazioni diverse e a me ugualmente ignote. Non avevo prestato ascolto a mia madre, mentre segnava sull'agenda (che mi aveva appena regalato) il numero dell'albergo in cui avrei potuto rintracciarla in caso di problemi; lei sapeva già che non avrei mai accettato di seguirla chissà dove, tantomeno da chissà quale sconosciuto amante. Invece avevo dovuto rifiutare il solito invito di mio padre a seguirlo in un qualche paradiso tropicale, dove sarebbe andato a staccare la spina dal troppo lavoro. Non mi andava di essere d'intralcio alla sua stessa liberazione dalle responsabilità, ma soprattutto temevo che avrebbe finito con l'ignorarmi in ogni caso. Come se non bastasse la scuola era chiusa, dunque niente allenamenti e niente squadra (insomma niente lui), mi ritrovavo da solo in una casa fredda e vuota. In quel periodo dell'anno non avere amici, o perlomeno una famiglia unita, diventava un peso non indifferente, praticamente impossibile da ignorare. Attorno era tutto festoni, luci e sorrisi; abbracci, cioccolata e baci; e io me ne stavo nel mio solito angolo buio, senza neppure un insulto o una sfida per cui reagire, sempre assolutamente privo di una vera conoscenza e presenza costante nella mia vita, privo di uno straccio di sentimento reale e sentito.

Il ventiquattro Dicembre, per l'ennesima volta mi diressi al parco. Buttai là qualche tiro, per poi infilarmi tra gli arbusti e lasciarmi ricadere sulla solita panchina. Una sottile patina di ghiaccio e nevischio ricopriva il terreno e gli alberi, animandoli di una luminosità affascinante e nostalgica; la brezza fredda si insinuava fra le pieghe del cappotto, pungendomi con i suoi acuti spilli. Cercai di concentrarmi sul sollievo che mi avrebbe dato se mi fossi trovato d'estate dopo un estenuante allenamento, visualizzando la scena nella mia mente. Dopo un attimo riaprii gli occhi rassegnato, il freddo è uno stato mentale per me, ma quando è troppo, è troppo. Il sole tentava di donarmi un po' di sollievo, senza tuttavia riuscire a vincere la plumbea densità del cielo. Me ne restai là seduto per quasi un'ora. Fissavo l'arancio del pallone contro il tessuto nero del mio cappotto, mentre la mia mente paralizzata dal freddo era incapace di decidere la cosa più razionale da farsi. Con estrema sorpresa riconobbi il consueto fruscio dei cespugli accanto alla panchina. Acchan ne sbucò fuori, esibendo un dolce sorriso e scuotendo lievemente il capo.

La VeritàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora