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«...Davvero lei pensa di ottenere la risposta a queste domande da uno specchio?» si lasciò sfuggire lei, facendo un'associazione di pensiero con la matrigna di Biancaneve.

«Per forza! Ho costruito ogni sorta di specchi per tutta la vita, dovrò pur essere in grado di realizzarne uno che mi mostri chi sono». Poi, fissandola intensamente negli occhi: «Lei lo sa chi è, signora?»

La luce abbacinante che entrava dalle grandi finestre rendeva l'ambiente un po' etereo. L'unico rumore distinguibile era il suono basso e lontano della risacca.

«Be', io...», Viola abbassò lo sguardo sulla fede all'anulare sinistro. Pensò a suo marito, alla loro casa; pensò al suo lavoro e alla sua qualifica, come se in quei dettagli fosse celata la risposta di quella domanda inaspettata.

«Non è quella roba lì», la sorprese l'uomo, come leggendole nel pensiero: «Lei non è il suo stato civile. Lei non è 'la moglie di'. Lei non è 'una dattilografa'. Lei non è 'dottoressa in economia'. Queste sono cose che ha fatto, ma non la identificano. Chi è, lei?»

Cercò di aggirare l'ostacolo e le vennero in mente caratteristiche fisiche, nomi e cognomi che vennero scartati appena arrivò il successivo rimbecco del vecchio artigiano.

«Non prenda neanche in considerazione di rispondermi con 'sono alta 1,65 e ho i capelli rossi', per favore. Non mi riferisco a questo».

«Mi sono persa. Cioè: vuole sapere se sono buona o cattiva? Io non saprei risponderle. Oddio, in effetti non sopporto mia suocera», scherzò, un po' imbarazzata. «Ma non sarei capace di soffocarla nel sonno, se è questo che intende. È anche vero che nei suoi riguardi non ho pensieri molto gentili. Però... senta, sono una persona normale, un po' come tutti, che diamine!»

«Una persona normale», ripeté lui, continuando a prestare attenzione alla lucidatura della lamina. Poi proseguì: «Sa, quando ero giovane e camminavo per la via principale del paese, mi sentivo fatto dello stesso vetro su cui poggio le mani ogni giorno».

Il suo sguardo si perse lontano, mentre le sue dita accarezzavano distrattamente la superficie su cui stava lavorando. «Mi sentivo così trasparente e sottile che a stento le persone potevano distinguermi dallo sfondo: come quelle finestre che sono così tirate a lucido che non si capisce se siano aperte o chiuse! Ha presente?»

Senza attendere la sua conferma, l'uomo continuò: «Ero un fantasma di vetro. Ma andava bene, perché ero io a cercare di attirare l'attenzione il meno possibile. Volevo confondermi con ciò che era circostante e non incrociare lo sguardo di nessuno. Mi dava fastidio che le persone si rivolgessero a me, capisce? In realtà mi dà noia tuttora. Ho sempre risposto con cortesia ma andavano ad increspare la quiete perfetta del lago del mio isolamento. Di rimando, soffrivo di una solitudine terribile. Un bel paradosso, non è così?»

La giovane donna annuì. Ancora non riusciva a trovare il bandolo di quella matassa, ma forse erano solo i vaneggiamenti di un vecchio strampalato.

«Insomma, nessuno mi vedeva e quei pochi con cui avessi a che fare conoscevano solo gli strati più superficiali della mia persona, quindi era come se non mi conoscessero affatto. Ha presente quegli atteggiamenti che si utilizzano per le interazioni con gli altri, tutti rigorosamente socialmente accettabili?» Spostò nuovamente su Viola le iridi grigio-azzurre: «Non ti identificano affatto, visto che tendiamo a replicare quei comportamenti nei riguardi di chiunque, nelle faccende quotidiane. Più sei 'comune' in questo tipo di scambi, meno resti impresso. E quindi la mia volontà di restare invisibile non ne soffriva».

«E la solitudine?» rimarcò lei.

«Quella era il rovescio della medaglia. Nessuno mi infastidiva, in compenso quando tornavo a casa c'eravamo solo io e gli spifferi», ridacchiò, «Faticavo anche a tenere acceso il fuoco nel camino, che mi elargiva le sue tenui fiammelle come se fossero un generosissimo dono».

«Scusi, non ha mai pensato che un comportamento diverso le avrebbe garantito molta meno sofferenza? Non dico tanto, magari frequentare qualche bar, tipo una volta a settimana, per non forzarsi eccessivamente», Viola quasi si giustificò, cercando di entrare nei panni del suo interlocutore.

«Ha perfettamente ragione. Solo che non ci riuscivo, capisce? Non è che lo stabilissi a priori. Ci ho anche provato: 'stasera vado da Gigi per un bicchiere'. Ci andavo. Mi sedevo, salutando con un cenno del capo gli altri avventori e qualcuno attaccava facilmente bottone: il maltempo, la vendemmia... le tette della figlia del lattaio... liti per un'eredità, matrimoni, figli... La vita ordinaria della gente mi veniva riversata nelle orecchie a secchi e di tutto quello di cui venivo messo a parte non me ne importava un bel niente! Volevo dire loro, l'avete vista la luna piena stasera? Era così vicina all'orizzonte che sembrava fosse possibile toccarla allungando una mano! Ma a chi mai potevo dire una cosa del genere? Già sapevo che dubitavano della mia salute mentale, figuriamoci. Oppure, invece delle tette della figlia del lattaio, avete visto in che modo grazioso arrossisca e volti la testa di lato quando apprezza un complimento? Ma niente, le tette vincono su tutto. A volte anche sul culo. Ma questa è un'altra storia».

La donna sorrise e si sistemò meglio sulla sedia, in attesa del resto. Dopotutto sembravano argomentazioni piuttosto articolate per venire espresse da uno che si diceva fosse vagamente squilibrato.

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