Untitled Part 1

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Era l'ultimo dell'anno. Jolzi lo sapeva, perché a differenza degli altri lui contava sempre i giorni dell'anno. Li teneva bene a mente, senza segnarli su un pezzo di carta o chissà dove. E non importava se negli ultimi mesi avesse perso i sensi dentro l'alcol, e soprattutto il senso del tempo, magari dopo una bella ripassata, di quelle che collezionava dopo le serate alla taverna. Jolzi contava i giorni lo stesso, anche se era rimasto indietro. Così non dava peso agli sbagli. Da quelle parti nessuno lo faceva. Là il tempo andava avanti sempre uguale. E se agli altri mancavano i venerdì, a lui invece alcune settimane.

«Non posso portarti dove mi chiedi», disse allo straniero.

Con la suola dello scarpone Jolzi nascose uno sputo sotto la segatura, e nella penombra l'unica luce era quella che proveniva dal fuoco poco distante. La sua faccia era divisa a metà, come quella di un mostro rintanatosi in quel tugurio per sfuggire a chissà quali cacciatori. Una parte del viso completamente oscura, spenta, l'altra arrossata dalle fiamme, e riluceva a intermittenza. Lo straniero posò gli occhi sul fucile, che brillava per la cura e la pulizia.

«Stanotte è troppo pericoloso», disse ancora Jolzi. «Non senti il vento?».

La taverna era fumosa, e ai tavoli ombre rannicchiate le une di fronte alle altre parevano sussurrare maledizioni di un tempo passato, storie lontane dalla legge. Ora il fuoco era morente. I pezzi di carta anneriti dentro la stufa sembravano i resti di un pennuto poco fortunato, e danzavano incerti nel soffio d'aria che scendeva giù dal tubo. Il suono che il vento portava con sé sembrava lo stesso del mare, quello di uno stretto di voci lontane nel tempo, grida di contrabbandieri che facevano affari con l'isola vicina da cui tutti loro erano venuti. Lo straniero si rese conto che quegli uomini, lì alla taverna, non aspettavano niente: nessuna festa, nessun nuovo anno. E neanche Jolzi, almeno secondo il suo personale conteggio.

«Questa notte suonerà il Tamburo», disse Jolzi, «ecco perché noi stiamo tutti qui dentro». Bevve, poi guardò lo straniero, e ciò che vide in quegli occhi lo turbò. Così buttò giù un altro sorso e riprese. «Perché quando suona il Tamburo è meglio non farsi trovare in giro, né di giorno né di notte. Già. Si dice che lo suoni il diavolo in persona, e io a incontrare il diavolo non ci tengo, almeno per un altro po'. Ma nel caso in cui si faccia vedere anche qui dentro, io mi porto sempre lui appresso». Così disse Jolzi, allungando due dita che sfiorarono la canna del fucile.

Il fuoco ormai ridotto a brace. Lo straniero si spinse all'indietro sulla sedia e si alzò, prese il cappello e se lo calò sulla testa fissando il tavolo, ma senza guardare Jolzi. Poi si allontanò a passi brevi, longilineo e nero così come era venuto. Le ombre che stavano ai tavoli si smossero per un attimo, chinandosi ancor di più sui legni appiccicosi di umidità e liquore. Lo straniero era già alla porta, la aprì, e subito un vento intriso di pioggia ne approfittò per infilarsi nella taverna. Quando l'uomo serrò la porta e la sua sagoma scomparve nel buio all'esterno, già si sentiva la voce oscura del Tamburo. E nella parte più recondita del locale, nella penombra senza fuoco, Jolzi abbassò gli occhi sul bicchiere e riprese a bere. In fondo, era l'ultimo giorno dell'anno.

Jolzi e il fucileDove le storie prendono vita. Scoprilo ora