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Stanotte mi hai fatto uno strano dono. Lo tengo tra le mani mentre riconsidero il tempo che abbiamo passato insieme, passeggiando avvolta da una nebbia rossastra, rugginosa. Intravedo i rami spogli e contorti di qualche albero, lungo il sentiero; l'atmosfera crepuscolare tinge di amaranto le loro cortecce.

Mi hai chiesto di restare, perforandomi l'anima con quegli strani occhi: due pozzi neri che niente riflettono, ma tutto inghiottono. In realtà la tua non è stata una richiesta, ma un ordine malcelato. Vorrei avere la capacità di resistere alla forza perentoria della tua essenza, un amore che non avvolge, ma sommerge, annega.

- Non ti allontanare da me -, hai mormorato, scandendo le parole lentamente. Nonostante la fascinazione che eserciti su di me, questo non è il mio luogo, mi sento sperduta e lontana dalla mia casa.

Soppeso questo dono nelle mani, la sua superficie liscia e sferica. Percorro con la punta delle dita le sue spaccature trasversali mentre rifletto sulla proposta del mio potente innamorato: sedere al tuo fianco tra le ombre. Tu, alto e pallido, avresti posato la tua fredda mano sulla mia, sul bracciolo scarlatto del tuo scranno. Divenire la tua sposa, considero, passando le dita sulla seta cremisi della mia veste, intessuta nelle tue terre.

- Sii la mia regina, Persefone -, hai concluso in un sussurro che ancora riecheggia debolmente nel mio orecchio. Le dita si insinuano nelle fratture di quel frutto inusuale che hai posto nelle mie mani e, dopo un piccolo sforzo, riesco a fenderlo a metà. I piccoli semi carnosi e purpurei brillano alla fioca luce dei lumi: ne stacco uno e lo schiaccio tra due dita. Il succo vermiglio comincia a colare fino al polso, ed è subito arrestato dalle tue labbra: sei sopraggiunto alle mie spalle silenziosamente, come sempre.

- Assaggialo -, suggerisce la tua voce sommessa. I semi sono invitanti e io sono affamata. Porto alla bocca i primi chicchi, dolceamari, irresistibili. Mi sorprendo a sorridere con gli occhi chiusi e il tuo respiro dietro di me è ora udibile, come se avessi trattenuto a stento un risolino.

- Ancora uno -, scandisce quel respiro, percorrendo la pelle esposta della nuca. Obbedisco, non so bene il perché. È la tua voce, che dà corpo a un'algida e inarrivabile figura, rendendola più familiare, più intima. Cessi di essere un sovrano in quegli istanti, consegnandomi lo scettro del tuo desiderio e della tua ammirazione. Ci sei tu a schermarmi da tutti i mali del mondo e non ho bisogno di nient'altro.

Lascio cadere il frutto e mi arrendo alla costanza del tuo quieto assedio. Con il sapore di melograno nei miei sospiri, capisco che la mia casa sei tu.

RossoWhere stories live. Discover now